S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Spesso le mamme, lamentandosi delle responsabilità e della stanchezza causate dai loro pargoli, dicono alle amiche che tentano di esporre le loro idee, di consigliarle: “Tu che ne sai, una che non ha figli non può capire”. Questo concetto a lungo mi ha indotta al silenzio, a non parlare del dolore, perché per troppo tempo i miei problemi più seri sono stati il dover portare gli occhiali al liceo o qualche brufolo che inopportunamente faceva capolino il sabato sera. Un altro buon motivo per tacere potrebbe essere il rischio di essere travolta dall'ammaliante canto dei buonisti, delle cui note sono pieni i giornali e i discorsi in tram. Ovviamente le maestre di catechismo mi hanno insegnato a praticare, almeno prima dei sacramenti, l'arte pietosa dell'immedesimazione: non lasciare la minestra nel piatto (ci sono i bimbi che muoiono di fame), non rispondere male ai genitori (ci sono bimbi che vivono negli orfanotrofi), non comportarti male a scuola (ci sono bimbi che fanno la guerra). Caspita! Ma perché non sposare la filosofia incentrata sull'elementare concetto Io guardo chi sta meglio di me? I casi di cui sopra saranno argomenti buoni per una puntata di un programma di Santoro, io sono ottimista e, con decenza parlando, me ne fotto di chi è sfigato. Non per cattiveria, s'intende, ma perché dubito che realmente esistano realtà così. Non conosco la fame, non conosco l'abbandono, non conosco la morte... Così, per gioco, fingevo di essere cieca, o di non poter usare una mano, o di essere Remì. A volte un po' di angoscia mi faceva compagnia la notte, ma dolci erano i risvegli, colmi di marmorea normalità. Ecco, capita poi, crescendo, che un folletto dispettoso decida di dire basta e prenda la decisione irrevocabile di farci diventare consapevoli. La consapevolezza che il dolore esista e che con esso si possa convivere può manifestarsi in varie forme. Per esempio con la morte di un amico che ha trascorso la serata con noi, ma poi si è seduto al posto sbagliato ed è stato seppellito a diciotto anni. Beh, allora si prova uno strazio che sembra troppo grande per essere contenuto in un solo cuore, si prova una sensazione di immobilità simile a quella di un serpente che ingoia un elefante, di fine. Ma poi il dolore si sfilaccia, senza che la sua essenza cambi, e assume forme diverse, vive, capaci di passare dalle fessure della nostra anima, liberandola parzialmente e lasciando il passo alla speranza. L'equilibrio è quasi una forma di rassegnazione, non mi appartiene. La consapevolezza è l'amore viscerale ma osteggiato per l'unica vita che possiamo plasmare adeguandoci alle condizioni al contorno, talvolta scansando gli ostacoli, più spesso sbattendoci contro. Quando (e se) la rabbia, l'anelito di giustizia, la brama di conoscere, le risate sbiadiscono, probabilmente il folletto è in compagnia del diavolo. Le favole mi piacciono, ma non i loro finali. Quel finale “E vissero felici e contenti” è tremendamente noioso: gente con il sorriso stampato noi non la vogliamo su questa Terra. I sorrisi contagiosi sono quelli basati sulla condivisione, sull'empatia, sul raggiungimento di un obiettivo, sono quelli stanchi di chi ha lottato e ha creduto.
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Erba
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