S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Il mio sangue è misto. E’ acqua e vino. E’ gitano, borghese . E’ padre e madre. Paesi del Capo di Leuca. E’ calura debilitante d’estate, muschio su rocce umide d’inverno.
Il mio sangue è scirocco d’Africa e pioggia battente tra foglie verdi di ulivi fieri.
Il mio sangue è mondo e terre ignote, è tensione costante. E’ infetto. E’ ferita che tutti temono di leccare. E’ malato di costante insoddisfazione. E’ contraddizione, paura. Il mio sangue è un ribelle in cerca di sedativo.
Il mio sangue sei anche tu.
Il lavoro mi ha portato in uno dei paesi che hai abitato. I tuoi piedi, come i miei, in moto perenne, forse in circolo.
Ero sola e la macchina seguiva strade sconosciute, riconoscendole. Sono arrivata sotto casa tua. Il bar Policarita è fermo a come lo hai lasciato. Il palazzo è pressappoco uguale, qualche ristrutturazione che non ha modificato la sostanza. Casa popolari. Ultimo piano? Non ricordo più. Ho conosciuto poco quell’appartamento. Quando mi hai abbracciato eri già a Lecce. Eppure ogni tanto “impazzivi”, così dicono loro, e volevi tornare a casa tua, così dicevi tu. Venivo a trovarti ed era pasta con la ricotta e rimescolio di cassetti e ricordi. Tuo marito, i tuoi figli, le cose che non avevi fatto. Troppe. I cibi che non avevi mai mangiato in vita tua.
A volte era solo un accertarsi che stessi bene e che avessi chiuso il gas.
Poi, lentamente, ti sei riparata in un mondo a parte, chissà quanto fosse vero che non capivi più o quanto tu ti sia presa beffa di me, di noi, poveri stolti in questa affrettata corsa senza tempo, né meta.
Dal Policarita ho comprato due pasticciotti, tre perate e un fruttone. Ora sono sul tavolo. Chiusi nella carta della pasticceria. Non so se li mangerò.
Che ne sarà del mio sangue così simile al tuo, me lo puoi dire? Aprirò il mio gusto a ciò che ancora non so? Ed il mio corpo verrà lavato come io ho lavato il tuo e, se sì, riuscirò ad insegnare a quelle mani, a quegli occhi quello che tu hai insegnato a me nel tuo solitario alfabeto di suoni?
L’ultima volta che ti ho visto mi hai guardato dritto negli occhi e dopo avermi chiamato distintamente, mi hai chiesto con chiarezza “Come stai? Stai bene?” “Sì.” , ti ho risposto, e tu mi hai sorriso e hai ribattuto dicendo “Bene.”; poi sei sparita di nuovo.
Mi manchi. Accade perché nella tua pazzia riconosco le mie vene, ma il mio sangue non è ancora pronto per l’evasione.
Aspettami.
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Erba
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