S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Era luglio. Iniziavamo a camminare intorno alle sei, sei e mezzo del pomeriggio lungo il viale sterrato. La salita, fino alla grotta naturale, poi la chiesetta di campagna. Imboccavamo la stradina asfaltata che conduceva fino alla provinciale, era piena di piante di more, selvagge, ispide. More e capperi… Tu li raccoglievi. Ci seguiva una gatta dal pelo rosso, si chiamava Cristina. Ero bambina ed avevo paura che si perdesse, ma lei, ostinata, continuava a seguirci nonostante i miei rimproveri. Tu sempre placida, sorridente. La ciotola che portavi con te si riempiva di capperi. Io sporcavo le mie dita di more. Nelle tasche tintinnavano i gettoni, stavamo andando all’albergo, quello all’entrata del paese che sembrava un casermone. Stavamo andando a chiamare papà per chiedergli quanto ancora sarebbe tardato. Poi si tornava, lente, accompagnate dal tramonto. Dal tramonto e da Cristina che, quando entravamo nell’albergo, ci aspettava fuori, ligia.
I capperi inondavano la cucina del loro profumo pungente. Prima li mettevi in acqua a mondarsi, poi li salavi e così rimanevano per giorni, rigirati di tanto in tanto. Solo all’ultimo avresti aggiunto l’aceto.
Poi, nel tardo pomeriggio, io mi allontanavo e andavo a sedermi su un gradino di roccia. Lì aspettavo papà; doveva vedermi per prima. Ero felice quando il vento mi portava il rumore del suo clacson e quando vedevo l’Alfa133 marrone ruggine girare la curva, superare il cancelletto rosso e immettersi nel lungo viale di cipressi.
Papà odorava di pulito. Dopo il lavoro andava sempre a casa in città per farsi una doccia e poi ci raggiungeva al mare.
Lì si rilassava, parlava un po’ con noi, ascoltava i miei racconti felici e poi ci portava a spasso, al porto. Cristina, a quel punto, veniva sostituita da Rosa, la mia bambola preferita. Quanto dolore quella volta che mi costringesti a prestarla ad una bimba viziata che la voleva con sé, che continuava a tirarla e baciarla. Quanta sofferenza quando me la riportò senza una scarpa! Ti detestai.
Questa tu, d’estate. Un viso disteso, un “e se domani…” intonato quando eri particolarmente serena, un insieme di colori, gonne larghe e costumi da bagno interi.
Durante le feste patronali amavi comprare noccioline fresche, ceci secchi e semini di zucca. Gli ultimi erano per me. Mi piaceva sentire sotto la lingua il gusto del sale sulla buccia. Di ritorno a casa rimanevamo fuori a mangiarli, quando ancora non c’era la luce elettrica e si stava con le lampade a gas. Quando ancora si poteva immaginare.
Il treno è partito in una uggiosa domenica di fine agosto. Ore 16.45. Indossavi le tue scarpe chanel color panna ed il tuo tailleur a righe sottili blu e bianche. Non sorridevi.
Mia figlia non ama né noccioline, né semini, ma mi costringe a seguire ogni festa patronale perché adora il momento dei fuochi d’artificio. Sta lì a testa in su e, forse, riprende il filo dell’immaginazione là dove l’ho perso io.
Aspetto il mio uomo, suo padre, con lei durante i pomeriggi d’estate, sempre lì, sul gradino di roccia. Profuma di colonia d’un tempo e il suo abbraccio mi fa sentire sicura.
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Erba
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