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Sara
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Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Garbati misantropi che transitate per questi lidi vellicando le vostre peggiori frustrazioni, capita (raramente, per carità, ma capita) che Sara partecipi con l’amata (!) socia Erba, ad un ritrovo tra blogger, il cui solo e unico obiettivo non sia, per una volta, l’accoppiamento.
Causale della convention è uno spettacolo teatrale in un ridente paesino dell’entroterra barese.
Erba e Sara si mettono in marcia di buon’ora, l’una bendisposta come una non più giovane marmotta, l’altra caratterizzata da una inusuale ipocromia del maquillage (sono passata dal viola schimmogghia al nero catrame balneare- la trasformazione in distinte trentottenni come vedete è ormai conclusa).
Dopo una gioconda caccia al tesoro per riuscire a trovare il teatro, conclusasi felicemente solo grazie all’intervento di uno degli attori (il fatto che un nordico mai stato in Puglia ci abbia telefonicamente condotte a destinazione la dice lunga sulle nostre capacità di orientamento - eppure siamo riuscite a sopravvivere ad Amsterdam da sole per 15 giorni… mah), Erba e Sara si accomodano in platea giusto in tempo per l’inizio dello spettacolo, fissato come da programma per le 21.30. Il luogo è suggestivo, la luna illumina il palcoscenico e una leggera brezza estiva rinfresca la serata.
Ore 22.00: i fastidiosi inceppi dell’equinozio autunnale giungono in largo anticipo costringendo la pelle al brivido. Gli anziani (Erba) indossano giubbotti e sciarpette, i giovani (Sara, in canotta e salopette) tentano di ripararsi alla meno peggio, nella speranza che il fortunale si estingua la più presto.
Ore 22.15: Tra gli astanti serpeggiano frasi veementi a mezza bocca che potrebbero far pensare ad indigene imprecazioni. Erba e Sara litigano cordialmente disputandosi una maglia che Erba pretende di usare come copricapo e che invece Sara reclama per le proprie nude spalle.
22.30: D’un tratto capisci che la serata ti cambierà per sempre i connotati alle tonsille: sotto il barocco elettrico da lampadine di paese l’atmosfera nella caverna è così allegra che quasi non ci si accorge dei ghiaccioli.
Ore 22.45: I pochi previdenti indossano piumino e scarponi da neve, gli anziani ed i bambini vengono condotti in salvo in barella. Peccato, perché lo spettacolo è bellissimo. Certo, lascia un po’ a desiderare l’acustica ma quando ci si accorge che il fastidioso ticchettare di sottofondo è causato dal ritmico battere dei denti di Sara la platea si mostra comprensiva.
Ore 23.00: il freddo ha sterminato ogni forma di vita. Gli attori, in particolare uno, hanno riscosso il plauso dei superstiti. Sara non riesce ad applaudire a causa di una fastidiosa paresi da congelamento ma trova la maniera di esternare la propria approvazione tramite un paio di scatarrate degne di Violetta Valery.
Ma la serata non è ancora finita perché aspetta il suo epilogo davanti ad una pizza (ma soprattutto al vino) con la compagnia al completo. A tavola si discute garbatamente della necessità di trovare un degno compagno a Sara (mi dovrei impegnare un po’ di più, lo so, solo che così, comandata da un calendario, proprio non riesco), della (riscoperta) passione per la scrittura di Erba (ma solo per evitare che, alticcia al punto giusto, continui a rovesciare alcool sugli assisi al desco) e della presenza scenografica del nostro accompagnatore.
Di lui, di me, di Erba e della serata potrei dirvi tante cose, ma quel che più mi è rimasto nel cuore è una gemella ostinazione nel perpetrare le proprie passioni.
C’è una libertà estrema dietro la meticolosa cura del proprio sentimento artistico, e c’è tutta una vita dentro l’opera che cresce tra le mani.
Se i miei quadri non danno quello che mi aspetto, allora per la rabbia picchio la testa contro il muro fin quando non sanguina. Così scriveva Mirò a Dalì e quest’ultimo, immaginando il muro sporco di sangue, gli rispondeva: Era lo stesso sangue che avevo io.
Quel sangue che unisce, inspiegabilmente, la schiena storta dell’anonimo contadino, il tronco dell’ulivo piegato dalla tramontana al filante camembert degli orologi molli di Dalì.
Come se l’asimmetria che c’è nello stare al mondo venisse momentaneamente intercettata e blandita da un sentimento comune, da una stessa intrinseca appartenenza.
Marò, quanto sono profonda…
… Meh*, scusate, ora vado a sciogliere corpi e orologi, per poi appuntire i baffi davanti all’avanguardia della mia prossima fregatura.
*Espressione idiomatica barese che prende spunto dal catalano e sta ad indicare Orsù, si è fatto tardi.
Erba
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