S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Dinanzi all'alternativa di essere oltre che zitella anche disoccupata, decisi di dedicare l'attività diurna dei miei neuroni allo studio: l'adolescenza, ormai, era alle spalle, per cui mi era chiaro che non si potesse vivere di soli sospiri. Correva l'anno 1990. Ammetto che all'epoca non ero più una “tifosa di pancia”: i voti sul mio libretto universitario erano la mia priorità assoluta, il resto mi sembrava solo costume. Snobbai anche l'invito di mio padre: “Che importanza ha una partita per il terzo posto?”. Beh, potrebbe averne. Ma anche questo l'ho imparato poi.
Nel 1994, in effetti, ero più consapevole, più bella, più laureata, più indipendente; all'epoca diedi forma alla donna che sono ora, trovando un personale equilibrio tra ciò che deve essere fatto e quello che faccio comunque, giacché, prima di tutto, estoy viva.
Di sicuro sono stati i mondiali più divertenti: insieme a circa 30 amici occupai una casa di campagna di cui possiedo i 4/135. Diciamo che non mancarono mai le sorprese, il sole tra le rose piantate dal nonno, la birra, le risate (e tanti pianti, ma concentrati in rare occasioni). E i baci. Oh, sì, quanti! Quasi quasi iniziai a pensare che all'Italia spettasse di diritto arrivare almeno ai quarti. Ma sì, sarebbe bello vincere... perché, poi? Va tutto bene, va tutto bene... siamo giovani e forti, non siamo ancora morti, presto mi trasferirò a Roma... è fatta, sono una donna. Vinse il Brasile, l'unico entusiasta fu Marco, il nostro Marco di San Paolo. Poi lo costringemmo a uscire con noi, quella sera Baraonda.
Come da copione, il 1998 non fu un granché, anche perché io ero affaccendata in altre cose: passata la sbornia da indipendenza economica, satolla di scienza pura, con il dottorato quasi in tasca, ero afflitta dalla questione: “Tornare in patria, cercare un posto fisso e convolare a giuste nozze o seguire le borse di studio, vivere senza programmi e se son rose fioriranno?”. Intanto, studiavo. Mi pare di capire che quell'anno non trascorsi l'estate in Francia. (Sia come sia, dire “Forza Italia” non è più così facile.)
Quattro anni non sono pochi (figuratevi sei), siamo al 2002. Il cancello della casa di campagna era ormai ben chiuso da un lucchetto, il mio futuro lavorativo (assieme al mio sogno di onnipotenza) imbrigliato da un contratto a tempo indeterminato (con tanto di possibilità di stipulare un mutuo), le partite – trasmesse a improbabili ore diurne – ben si conciliavano con i miei nuovi ritmi di neo-mamma. Le invettive rivolte agli arbitri stonavano con i colori pastelli intorno a me... signori, per favore, un po' di serietà.
Ecco, appunto. Giunge il mondiale 2006 e mi coglie in flagranza di reato. Ormai ho due bimbi (totalmente indifferenti al calcio), padroneggio con disinvoltura ogni tipo di passeggino, elargisco consigli alle amiche in dolce attesa, ma nottetempo leggo, mi informo, ascolto musica... Tra pochi mesi, è inevitabile, inizierò a scrivere. Sono uscita dal bozzolo, non più donna in carriera. Mi travolge il desiderio di disfrutar de la vida, tra i miei preferiti c'è il verbo gozar. Ecco cosa succede a rilassarsi: si vince un mondiale, si sorride, si indossano abiti bianchi senza tema di macchiarli.
Giugno 2010. Vanto un codice ISBN, regalo concessomi in anticipo per i miei fatidici 40 anni, i miei figli conoscono squadre e bandiere, invitano gli amichetti a vedere le partite. Mi sorprendo a pronunciare le parole udite da mia madre il giorno della finale 1982: “Sono troppo tesa, non posso stare ferma durante la partita”, e così taglio focacce e mozzarelle, distribuisco birre agli adulti e aranciata ai piccini, distraggo il cronometro con i mini-cono al cioccolato... Dicono che questo mondiale sarà brutto per noi come quello del Messico. Mi oppongo.
(Bellissimo immaginare il gol, l'esultanza, quelle belle facce da inserire in un montaggio, indelebili immagini nella storia dello sport...)
Nota
Se io fossi un giocatore, o un allenatore, o semplicemente se fossi seduta in tribuna, a un certo punto, con estrema lucidità e freddezza, afferrerei un microfono e inizierei a urlare, intimando a ogni possessore di vuvuzela di smettere. Solo questo, perché sono una signora.
Erba
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