S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
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Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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“Posso sedermi qui?”. È iniziato tutto così, per poi durare otto anni.
Eri talmente alta che quel posto in prima fila suonava come una delle ironie che la vita ci avrebbe riservato.
Io non sapevo nemmeno cosa fosse il turpiloquio e il massimo delle mie esclamazioni suonava come un “vaffancappero!”.
Ridevi di me e in parte non sopportavi il mio perfetto candore da suore Marcelline.
Ho imparato da te il sesso, il fumo, l'alcool. Ho imparato a osare oltre la coltre formale di un grembiule bianco e di un diario uniformato.
Hai sopportato da me la perfezione di chi non sbaglia mai, di chi non deve sbagliare.
Fuori dalle righe, tu. Disegnatrice di righe io.
E sono state notti insieme, capodanni a guardare il corvo, sempre lo stesso film, sempre le stesse commozioni al suo “non può piovere per sempre.”. Mentre il mondo folleggiava, a noi bastavamo noi e le nostre chiacchiere fino all’alba.
Con te ho conosciuto i Cure, i Queen e Michael Jackson. Il tuo sentimento disperato per Robert Smith. Credevi fortemente che avresti potuto incontrarlo ed io così cocciuta a dirti che non sarebbe mai potuto essere, che lui non avrebbe mai potuto conoscerti, amarti.
Eri sempre magrissima e poi grossissima.
Mi raccontavi delle tue chat erotiche con sconosciuti, dei tuoi spuntini di mezzanotte a saziare la tua bulimia d’imperfezione.
Ti sei fatta stuprare per amore, ma questo tu non lo sai.
Ti sei ferita attraverso la negazione di te. E questo lo so io e tu, guardandomi, lo hai letto in te stessa.
L’ultima volta che ti ho incontrato hai detto che mi amavi e hai aggiunto che il male che mi avevi fatto era l’unico modo per avvicinarti a me.
Con te ho capito la mia cieca rigidità. Con te ho compreso che se piove ci si può bagnare senza morire.
Quello che sono, lo sono anche grazie al sangue e veleno che mi hai sputato in gola.
Quello che mi manca è la perfetta simbiosi delle nostre battute e dei nostri pianti.
Una volta mi hai detto: “chissà come starà mio figlio! Chissà se gli manca una madre pazza e puttana!”. Al mio sguardo sbalordito hai risposto: “perché? Non sai che ho un figlio? Avrà su per giù dieci anni. Il problema è che nemmeno io so se l’ho mai avuto. Forse ti sto raccontando solo una fantasia.”. Poi hai iniziato a cantare una nenia, dietro alla sbarra che ci separava. Così ti ho perso.
Ho perso il tuo sguardo, ho perso il tuo morboso amore per me. Forse nessun uomo mi ha mai amato così.
E poi sono stati gatti sgozzati e coltellate alla schiena. Eri tu, era il tuo modo per dirmi ci sono ancora.
Ho lasciato che diventassi evanescente a te stessa.
“Ricorda, siamo come biglie: colorate, sfuggenti, libere, tintinnanti la nostra presenza. Fragili, ma dolorosi proiettili di cuore, a volte, al bisogno…”
Sei stata uno dei tanti avvoltoi della mia vita, ma sei stata anche il più sincero specchio di me stessa. Ti voglio bene, Desdemona, ovunque tu sia. E questo, forse, non te l’ho mai detto.
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Erba
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