S_CAROGNEAvvertenze: questo è un blog, bipolare come i più comuni disturbi dell'umore |
Sara
AREA PERSONALE
Vecchio Paz
Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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Gabriella aveva sempre un tarlo nella sua testa: il tempo.
Sempre in folle corsa nella sua vita in ritardo. Sempre in attesa di qualcosa che non sapeva, che non arrivava mai.
Curava la sua orchidea, i suoi semi di marijuana. Mangiava liquerizia e cercava di mettere ordine tra le mille cose da portare a termine. Cercava di fare.
La mattina prendeva la sua pasticca di Cipralex e iniziava la giornata tra caffè e sigarette.
A volte andava in ufficio, altre riusciva a stare a casa.
Nessuna chiamata era quella importante, nessuna visita che potesse rispondere alla sua sete di mutevolezza.
Gabriella amava cucinare.
Alle 7.00, mentre fumava il suo risveglio sul piccolo balcone della sua casa, annusava il cambiare delle stagioni.
Immaginava tutto diverso. La sua vita, la sua felicità, la libertà.
Non c’è niente di meglio che sapere stare bene da soli, pensava. Non c’è nulla di peggio che soffrire di solitudine, rispondeva l’altra parte di sé.
Gabriella portava i suoi fianchi morbidi a fare la spesa, la birra, la più economica, non mancava mai, così come il mangiare per i gatti che non aveva. Restava a chiacchierare con l’indiano della cassa e poi, di ritorno, raccoglieva qualche plastica da terra, per riporla nell’apposito cassonetto.
Spesso cercava conforto nella presenza dei suoi amici. Non sapeva bene a cosa voleva mettere quiete. Non capiva cosa le lasciasse sempre un profondo senso di sete. Sapeva, però, che in quei momenti di chiacchiere e risate, avrebbe potuto fermare il respiro e assecondare la sua voglia di allegria. Tutto il resto poteva venire dopo. E sarebbe venuto dopo, con le bottiglie vuote, con le briciole su una tavola da risistemare.
Non rimpiangeva nulla del passato, non chiedeva al futuro alcunché, se non la cosa più difficile, sentirsi appagata.
Capitava che la si incrociasse nel condominio. I suoi capelli corti, arruffati, il suo stile particolare, la sua affabilità. Non riusciva a vedersi con gli occhi degli altri.
Il sabato era dedicato alle ripetizioni per i ragazzini. La domenica alle pulizie. Tutto il resto della settimana era una fuga affannata dai pensieri e dalle sue debolezze.
Quando era più piccola, bastava un pianto per risollevare tutto, una canzone ad alto volume, o dedicarsi a qualcosa che non fosse dovere. Ora tutto sembrava più complicato, ma non capiva proprio quando e come il meccanismo si fosse rotto. Forse era colpa della tiroide e rideva tra le mura del suo ingresso, mentre, stanca, rifletteva nel grande specchio la sua immagine cambiata.
Gabriella voleva di più, ma non sapeva da dove ricominciare, men che meno dove cercare.
Giorni fa ha bussato alla mia porta. Chiedeva informazioni vaghe sui proprietari dell’appartamento. Ha voluto vedere la cucina, ha notato lo stato degli infissi. Le ho offerto un caffè al ginseng. “Buono. Lo comprerò”. Poi è andata via, la sua porta si è richiusa e nella mia mente si è palesata l’ipotesi di aver aperto ad un fantasma.
Domenica mattina ho sentito il suo vecchio maggiolino rombante uscire dal garage. Da allora nessuno l’ha più incontrata per le scale e dalla sua casa non trapela alcun segno di lei. Forse, ha trovato un filo sottile da seguire come si segue un’ombra nella nebbia. Come si cerca il ricordo di un disegno mai abbozzato. Forse ha riempito di un po’ di vestiti la sua vecchia e sgangherata borsa comprata a Londra in un giorno di felicità.
Non so nulla di lei, se non che ha occhi grandi, un profumo di vaniglia e un profondo, malinconico sorriso.
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Erba
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