La lingua e il mio posto nel mondo…

In Alto Adige, senza il patentino di bilinguismo italiano-tedesco, sei praticamente un fantasma nel mondo del lavoro. Pubblico impiego? Scordalo. Para-pubblico? Niente da fare. Privato? Non pervenuto. Insomma, se il tedesco non è il tuo miglior amico, scordati di fare il medico, l’infermiere, l’insegnante (anche se insegni la tua lingua madre), il postino, il commesso… qualsiasi cosa. Per me, cresciuta con l’italiano, l’apprendimento del tedesco è stato inevitabile. È fattibile, certo, ma quale tedesco, esattamente? L’ho scoperto una delle prime volte che, ormai maggiorenne, mi sono avventurata in Val d’Ultimo, dove il mio ragazzo di allora prestava servizio come Carabiniere. Lui, il Maresciallo e il Brigadiere della stazione erano gli unici italiani del posto. Da innamorati sognanti, avevamo programmato una romantica escursione in malga: mano nella mano, zainetto in spalla. Boschi, prati, fiori e torrenti: uno spettacolo! Ma qualcosa andò storto. Niente cellulari, satelliti, o Google Maps: solo una cartina e il nostro – scarso – senso dell’orientamento. Dopo un lungo tratto di bosco a dir poco incantevole, ci rendemmo presto conto di esserci persi. «Torniamo indietro, forse abbiamo sbagliato al bivio di prima,» disse lui, che di nome faceva Michele. Facemmo avanti e indietro, più e più volte, finendo sempre allo stesso punto. L’ansia cominciò a prendere piede, complice l’orologio che segnava le quattro del pomeriggio e l’ombra della sera che si allungava. E il freddo. Ricordo che iniziai a sentire prima la sete, poi la fame, e infine persino il sonno. Ma soprattutto, sete. La gola arsa era una sensazione orribile. A un certo punto ci ritrovammo su un pendio dove un uomo anziano ci osservava come fossimo due alieni appena atterrati da Marte. Lo avvicinai, chiedendogli aiuto in un impeccabile Hochdeutsch scolastico. Mi rispose in una lingua mai sentita prima. «È dialetto locale,» disse Michele. «Ah sì? E tu lo capisci?» Michele scosse la testa. Senza acqua e disperati, riuscimmo a fargli capire che avevamo bisogno di un passaggio. In qualche modo si convinse che eravamo a posto e forse impietosito ci fece salire sul suo trattore e ci scaricò in paese. Alla prima fontana, mi immersi come un’assetata nel deserto. Quella sera, raccontai l’avventura ai miei genitori. «Che lingua ho imparato a scuola se non mi serviva a parlare con la gente della mia stessa terra?» chiedevo. Chi ero? Dove vivevo? Possibile che ci fosse gente che non sapeva l’italiano? E gente come me che non parlasse la lingua del posto?

Mio padre mi raccontò di Mussolini. Sapevo già che la mia provincia era speciale, ma non fino a quel punto. Decisi che era giunto il momento di capirci qualcosa di più. Per diciotto anni avevo vissuto a Bolzano, in una specie di bolla; una città dove tutti parlavano italiano. Iniziai a studiare quello che a scuola nessuno mi aveva mai spiegato bene: la guerra, il fascismo, l’italianizzazione forzata, il terrorismo degli anni Sessanta. E degli italiani immigrati da varie regioni, proprio come i miei nonni, che sono rimasti una minoranza. La lingua ufficiale è l’Hochdeutsch, ma solo una minima parte della popolazione lo parla. La maggior parte delle persone parla dialetti: diversi da una valle all’altra. Ero scioccata. Il tedesco che avevo imparato a scuola così faticosamente serviva solo per ottenere il famoso patentino, ma sul lavoro non lo avrei mai usato perché nessuno lo parlava. Il senso di smarrimento, di sentirsi apolide nella propria terra, è germogliato allora e non ha mai smesso di crescere. L’unico modo per affrontarlo, forse, è stato leggere tutto ciò che potevo sulla storia della mia terra: ma era davvero «mia»? Volevo scoprire come si erano sentiti i miei nonni prima di me: sapevano di vivere in un’enclave? Sapevano che tre quarti della popolazione altoatesina era tedesca e che solo una minima parte parlava italiano? Come si erano sentiti? E io, come mi sentivo? Leggere, capire, studiare, non bastava: dovevo raccontare.

Ancora oggi non so rispondere a queste domande con precisione. A chi dice «state bene voi lassù, in Alto Adige, con la vostra autonomia e tutta la ricchezza delle Dolomiti,» vorrei rispondere «se solo sapessi… le nostre scuole sono ancora separate per lingua.» Ma poi sorrido, ci penso e mi rendo conto che, in fondo, non è poi così male. Grazie a quella tragica giornata in montagna, mio marito ed io abbiamo fatto scelte diverse da quelle dei miei genitori e i nostri figli oggi sanno parlare Hochdeutsch, i dialetti locali a altre due lingue straniere. Ma il bisogno di raccontare dell’Alto Adige con tutta la sua storia e le sue contraddizioni non mi è ancora passato.

Katia Tenti      

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Katia Tenti è in libreria con “E ti chiameranno strega” (Neri Pozza)

E tutti vissero narcisi e scontenti…

 

Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani- il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”

“Abbiamo avuto i ribelli e i rivoluzionari, oggi, nonostante il benessere e la longevità, in Occidente abbiamo gli scontenti e il mare oscuro del rancore si allarga”. Marcello Veneziani, saggista e filosofo, fa un viaggio “nelle regioni della scontentezza”, male del nostro tempo, in piazza Grande a Modena con la sua lezione magistrale in programma al Festivalfilosofia. Il ritratto dello scontento si compone di diversi elementi e di uno strano legame con gli altri e con il potere. Non è infelicità: “la scontentezza è sempre comparativa (non è il soffrire interiore dell’infelice) e ha un’ animosità e un tratto tutto moderno tanto che nella classicità non ci sono termini precisi per definirlo. La scontentezza è tipicamente occidentale e faustiana- la descrive Veneziani- è come una sete continua, un narcisismo frustrato perchè viviamo un’epoca in cui desideri e diritti vengono identificati e il limite delle nostre possibilità quando appare ci procura uno scompenso”. Come inizia il viaggio della scontentezza nella contemporaneità? Tante le cause: “Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani– il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perchè non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Veneziani ne mostra la dinamica: “Chi è scontento si apparta, rifiuta la socialità, solo in alcune occasioni si accomuna agli altri e si passa al malcontento politico. Il potere veicola il nostro scontento perchè l’insoddisfazione genera dipendenza”; importante è che resti “molecolare”, frammentato nei singoli, cosi può essere gestito al meglio e ciascuno sarà chiamato a “prendersela con se stesso se non ha realizzato nella propria vita personale ciò che gli dà scontento: risolvi nel tuo personale dice il potere. Il malcontento invece porterebbe alla piazza, il potere è diventato così il grande imprenditore dello scontento che è una fabbrica ineusaribile dei desideri e dei consumi”. Non è tutto distruttivo, tiene a puntualizzare Veneziani, “esiste uno scontento positivo che rimette in discussione aspetti, che non si accontenta”. Non c’è da restare rassegnati, ma come? “Paragonando la nostra vita a quelli di altri tempi, pensando che il mondo non finisce con noi, relativizzando il nostro tempo, accettando (che non è rassegnazione) il destino, i verdetti dopo che si è provato a cambiare”, raccomanda il filosofo. Uscirne si può: bisogna tornare all’amor fati, come lo pensava Nietzsche, contro quello che è diventato un horror fati: “Dietro allo scontento c’è il primato del non essere e allora la risposta ce la dà Dante quando scrive ‘State contenti umane genti al quia’. E’ questo ‘state contenti’ il passepartout per uscire dalla prigionia di un presente percepito vicino al punto di non ritorno che ci condanna ad essere pieni di desideri irrealizzabili e di un tempo che non c’è. E invece, nonostante l’eco-ansia, tanto propagandata, il tempo c’è, invita ad osservare Veneziani: torniamo ad amare il fato. Torniamo al destino.

(Il Mattino quotidiano)

Antonio Ligabue, l’artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo…

 

Una mostra ricorda il pittore morto nel 1965 a Gualtieri, Reggio Emilia |
Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

«Leonessa con zebra», 1959

Quando ci si avvicina a un artista come Antonio Ligabue, il rischio di essere retorici è forte: il «pittore naïf», la «visceralità della natura», «l’innocenza» e «l’ingenuità» sono stati il cardine di numerose letture critiche che, non sempre ma spesso, sconfinano nella verbosità inutile. Che l’artista nato a Zurigo nel 1899 e morto a Gualtieri (Reggio Emilia) nel 1965 sia stato un autodidatta con numerosi problemi di inclusione sociale ormai si sa. Se non bastasse, la popolarità del film di Giorgio Diritti con Elio Germano, «Volevo nascondermi», ce lo ha ricordato quattro anni fa.

Antonio Ligabue

Ma questa vita complicata, tra manicomi, ricoveri coatti, fughe improvvise, risse ed emarginazione sociale, non può bastare a spiegare la popolarità del pittore. E certamente non è la chiave di lettura di una tecnica molto raffinata: la minuzia con cui descrive la savana pur non essendoci mai stato o i dettagli quasi fotografici nella rappresentazione di una tigre meritano una riflessione più approfondita. Perché non si diventa Ligabue da un giorno all’altro, come conferma «Antonio Ligabue. La grande mostra», in programma a Palazzo Albergati di Bologna dal 21 settembre al 30 marzo dell’anno prossimo, curata da Francesco Negri e Francesca Villanti, prodotta da Arthemisia con catalogo Moebius.

Antonio Ligabue

Anche perché il suo vero cognome era Laccabue, acquisito dal patrigno, un patrigno mai amato nella prima infanzia in Svizzera. Quando, nel 1919, Toni venne espulso dal territorio elvetico e spedito a Gualtieri (Comune di nascita del padre), la prefettura di Como, nel passaggio, storpiò il cognome in «Ligabue» e l’artista lo tenne fino alla fine. Da allora la vita di Toni è stata un’altalena tra reclusioni, vita sociale difficile, attaccamento vigoroso alla pittura, disperato tentativo di tradurre in arte un universo personalissimo che l’artista si è sempre portato dentro, nutrendolo di numerose suggestioni. Per esempio, le figurine che raffiguravano animali feroci, molto diffuse a partire dal secondo dopoguerra: tigri, leoni, leopardi immersi nella natura verdissima di paesi esotici e percepiti come autentici, come dei paradisi pericolosi.

Antonio Ligabue

Ma nel Reggiano, specie nella provincia profonda e fluviale di Gualtieri, Antonio osservava un’umanità colorita e lavoratrice, fatta di riti e simboli, immagini sacre o, all’opposto, orgogliosamente laiche. Un mondo racchiuso nei romanzi e nei racconti, per esempio, dello scrittore reggiano Silvio D’Arzo, morto di leucemia nel 1952 dopo averci consegnato un piccolo capolavoro come «Casa d’altri», racconti ambientati nella provincia padana dove «appaiono strane anche le cose più ovvie». Nelle sue storie preti, suore, madri e pirati si danno il cambio in una girandola immaginifica dalla quale discenderà la poetica di Ermanno Cavazzoni, tanto per fare un nome.

Antonio Ligabue

 Una linea «folle» quella di Reggio Emilia, nella quale Ligabue si inserisce con la bellezza nuda di un artista autodidatta, analfabeta, «adottato» ora dallo scultore Renato Marino Mazzacurati — importantissimo nell’insegnargli dell’uso dei colori e della composizione scenica — ora dall’amico pittore Andrea Mozzali di Guastalla, che, in piena seconda guerra mondiale, accettò di accogliere in casa Ligabue, che era stato internato per la seconda volta presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia. Ma la mostra bolognese contribuisce a sfatare un altro mito: che la critica accademica non lo abbia mai preso sul serio. Dopo una iniziale emarginazione, infatti, il percorso di Ligabue cresce e si evolve in modo interessante. Scrive Villanti nel catalogo: «Scoperto negli anni Cinquanta grazie a Marino Mazzacurati e sostenuto da critici come Bartolini e Vigorelli, l’artista godette di un riconoscimento ufficiale, culminato con una personale alla Barcaccia di Roma nel 1961». Una mostra molto importante, perché — presente lo stesso pittore — è qui che nasce «il caso Ligabue», cioè l’intreccio saldo di una vicenda umana e artistica che incuriosì il mondo culturale.

Antonio Ligabue

È proprio dalla mostra romana che prenderà vita, anni dopo, lo sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita, «Ligabue», trasmesso nel 1977 da Rai 1 in tre puntate e poi acquistato dalle televisioni di tutto il mondo (nei panni dell’artista, Flavio Bucci). Poi verranno i film di Raffaele Andreassi, «Lo specchio, la tigre e la pianura», del 1960, Orso d’argento al Festival di Berlino, e altre due opere dello stesso Andreassi, «Nebbia», del 1961, e «Antonio Ligabue pittore» del 1965. E poi libri, studi, documentari. Fino alla morte dell’artista, avvenuta quasi sessant’anni fa. È proprio qui che avviene una curiosa disgiunzione: la critica accademica si fa sempre più tiepida, ma cresce in modo esponenziale la curiosità popolare nei confronti dell’artista, non solo per la sua vita ma anche per la sua arte.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

Il recente film di Giorgio Diritti non è che un esempio della popolarità del pittore: ci sono i romanzi sulla sua esistenza (da «La campana di Marbach» di Renzo Martinoni fino a «Il genio infelice», di Carlo Vulpio); ci sono i documentari, i saggi e anche il mercato oggi lo premia, perché nel giugno scorso, nell’asta indetta da Pandolfini, il suo «Lotta di galli» ha superato i 470mila euro. È solo curiosità per la biografia di un «irregolare»? No, c’è dell’altro e opere come Tigre, del 1954 o Aquila con volpe, del 1949, lo dimostrano.

Ligabue si è inserito perfettamente nell’alveo della modernità, mettendo al centro i demoni interiori: le paure, l’istinto di sopravvivenza che ci rende feroci, la lotta della specie, il bisogno ancestrale di difendersi. Ma, a differenza di artisti come Van Gogh (al quale è stato più volte assimilato) non stravolge la rappresentazione della realtà, non la riduce a simbolo, bensì la amplifica.La esaspera nei dettagli minuziosi, nei colori vividi, nelle espressioni più forti. Nel bestiario di Ligabue c’è vita vera: la ferocia della provincia, la paura dell’essere «irregolari», l’ambizione a diventare «i più bravi», il terrore di essere inadeguati e la consapevolezza di sentire le cose meglio degli altri. È anche per questo che la sua produzione privilegia scene animali e autoritratti: come a sottolineare una profonda connessione tra l’istinto primitivo delle belve e la feroce sensibilità dell’artista.

Antonio Ligabue, l'artista che trasformò la realtà in un grande urlo primitivo

rscorranese@corriere.it

Il desiderio di essere migliori (degli altri)…

 

Dopo aver finito un lavoro complesso che ha dato ottimi risultati, dopo aver cucinato una serie di delizie per la cena con gli amici, ecco che al momento del trucco e parrucco davanti allo specchio tutto precipita: che capelli brutti, che faccia pesta, quante rughe, accidenti, così non si può andare avanti, ci vorrebbe un anno di lifting, e via di seguito in un crescendo di insoddisfazione che nasce dall’autocritica spietata miscelata al confronto con un’immagine ideale che forse risale a 20 anni o, peggio, per ovvi motivi non regge il paragone con la modella della porta accanto, diciassettenne filiforme alta 1,83 che si nutre di sedano.

Ma perché farsi del male? Perché non smetterla di competere con noi stessi e con il resto del mondo?

Se solo riuscissimo ad ammettere che la corsa continua a voler essere sopra la media per sentirci meritevoli di approvazione quando non addirittura d’amore, unita al bisogno di essere perfetti in tutto non dà la felicità ma, piuttosto, porta a essere scontenti e, soprattutto, a non amarci. Alcuni psicologi hanno dato un nome -self-compassion- al potere che la compassione verso noi stessi ci offre, aiutandoci a gestire le emozioni distruttive, perché è esattamente questo sentimento di benevolenza che siamo più propensi a sperimentare verso il prossimo che verso le nostre auguste persone che ci può aiutare a cambiare: se impariamo a trattarci con la stessa gentilezza, sensibilità e cura (in pratica, con la stessa compassione) con cui trattiamo chi soffre attorno a noi, abbandoneremo la maggior parte dei nostri pensieri autocritici.

Lasceremo andare quel continuo dialogo interiore che ha la forma di svalutazione costante e spietata e che ci porta a formulare nei nostri confronti (mai di qualcun altro, per carità), giudizi incontrovertibili come: «Ti sei comportata/o da idiota», oppure: «Non ce la farai mai». Sono atteggiamenti talmente comuni queste feroci autocritiche e questi comportamenti, che viene da pensare che chi li mette in atto lo faccia per assicurarsi l’accettazione altrui, un po’ come se preventivamente si dicesse: «Mi critico io prima che lo faccia tu». Un po’ come se fossimo stati programmati per non piacerci, per non essere mai abbastanza contenti, e forse è quello che impariamo in famiglia, quando madri e padri utilizzano la critica continua come mezzo per migliorare i figli, e nel cervello dei ragazzi si stampa come un tatuaggio quella modalità denigratoria che nella vita adulta diventerà l’abituale: «Potevi fare di più», «Non sei all’altezza».

Ma invece di condannarci per i nostri sbagli e fallimenti possiamo abbandonare le aspettative irreali di perfezione che ci rendono insoddisfatti, e iniziare a trattarci con la compassione di cui abbiamo bisogno, considerando che siamo esseri umani, quindi per definizione imperfetti, connessi e non isolati dagli altri: questo succede se non opponiamo più resistenza alla sofferenza e cominciamo ad elaborare le circostanze difficili che la vita ci propone con gentilezza. Molte persone pensano di non dover essere gentili con se stesse, specialmente se hanno ricevuto questo messaggio nell’infanzia, oppure se pensano che l’auto-compassione sia sinonimo di autoindulgenza. Ma la gentilezza verso sé comporta molto di più che smettere di auto-giudicarci. Implica saperci dare conforto, reagendo come faremmo con un caro amico. E se il nostro dolore è causato da un passo sbagliato che abbiamo fatto, è il momento giusto per offrirci compassione.

Quando plachiamo le nostre menti agitate con gentilezza e compassione invece di denigrarci siamo in grado di notare cos’è giusto e cos’è sbagliato, in modo da poterci orientare verso ciò che ci dà gioia, cominciando finalmente a smettere di chiederci: «Sono bravo come gli altri?». Interrompere questo ciclo è possibile. Non che sia facile, ma il modo per contrastare l’auto-criticismo è individuarlo, capirlo e sostituirlo con una risposta più gentile. Se ci soffermiamo e riconosciamo la nostra sofferenza -come faremmo ascoltando un nostro amico o una nostra amica in difficoltà- non potremmo non commuovervi davanti al nostro dolore. Spesso non siamo in grado di accettare che stiamo soffrendo perché la cultura occidentale tende a esortarci a stringere i denti, a tener duro e probabilmente ci è stato insegnato che non dobbiamo lamentarci, che dobbiamo essere forti e mostrare sofferenza è da deboli. Ma visto che la nostra cultura ci invita anche ad essere gentili con gli amici, la famiglia, i vicini di casa e non solo quando si trovano in difficoltà, perché non dovremmo comportarci con altrettanta gentilezza con noi stessi?

Quando commettiamo un errore o falliamo, perché dovremmo anche darci una mazzata in testa invece della pacca sulla spalla che avremmo tanto bisogno? Magari abbiamo sempre fatto così, e probabilmente il solo pensiero di confortarci ci sembra assurdo, ma c’è la possibilità di modificare il nostro modo di vedere le cose. Anche se quando il dolore proviene dall’auto-giudizio è difficile da riconoscere per quello che è, cioè un momento di sofferenza, se impariamo a lasciarci commuovere dai tormenti che proviamo a causa della tendenza a criticarci sempre, e a provare benevolenza e gentilezza nei nostri confronti, sperimentiamo il desiderio di guarigione. Che coincide con il momento in cui diciamo basta al dolore auto-inflitto. Quando arriviamo a riconoscere che la debolezza e l’imperfezione sono parte dell’esperienza umana, siamo connessi ai nostri compagni di viaggio nella vita, vulnerabili e imperfetti come noi. Possiamo lasciar andare il desiderio di sentirci migliori di quello che siamo e migliori degli altri.

Anna Tagliacarne

migliori

Figli e genitori…

Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.

“Me ne cado, “mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.

“Ma a salire su questa navetta,” ha detto il marito indicandola oltre il vetro, “ce la fai.”

“Mi piace tanto viaggiare”, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.

La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.

“E la crociera parte da Genova?, “ho chiesto.

“No, da Atene.”

Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via   . Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati. Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto. Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.

Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole – che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.

Rosella Postorino

 

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Ho scritto su Instagram “gelato al finocchio” e mi hanno tolto l’accesso al profilo…

Alcune foto pubblicate, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”. Chissà quali erano le parole offensive.

“Gelato al finocchio”. Finocchio non si può dire nemmeno parlando di ortaggi o almeno non posso dirlo io, attenzionato come omofobo, suppongo. Ho pubblicato su Instagram alcune foto, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”.  Prima mi è arrivato un messaggio esortante a modificare il post o a fare ricorso. Una comunicazione estremamente vaga dalla quale non si capiva se il problema fossero le parole “bruciato” e “brace” (troppo ustionanti?) o la parola “pecora” (troppo porno?) o la parola “finocchio” (troppo discriminante?). Io non ho modificato nulla (avrei dovuto scrivere “gelato al Foeniculum vulgare?”) e ho fatto ricorso: per tutta risposta mi hanno tolto l’accesso al profilo. Poi dicono la libertà di espressione. Sia lodato Elon Musk.

Camillo Langone __da___Il Foglio
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Eutanasia della libertà…

 

Viva la muerte, gridavano in Spagna ai tempi della guerra civile. Viva la muerte è il messaggio che manda lo spagnolo Pedro Almodovar dalla Mostra del Cinema per liberarci dal dolore di vivere, ma in un significato assai diverso da quel grido. Dopo aver dichiarato morto Dio con le sue religioni e preghiere, morta la Natura col suo ordine e le sue leggi, morta la famiglia con i suoi legami, morta la tradizione con la storia e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la decreazione, la libertà di eliminarci. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita e lo esercitiamo fino alla morte. Da tempo i messaggi pubblici inviati dalle maggiori agenzie di riferimento della nostra epoca, tra i quali spiccano il cinema e la tv, ruotano intorno a quei temi e si raccolgono infine nell’elogio dell’eutanasia. Almodovar ha vinto il Leon d’Oro a Venezia col suo film dedicato all’eutanasia – ancora una volta, Morte a Venezia – ma non era un tema originale, è da alcuni anni un filone cospicuo nella narrativa cinematografica della nostra epoca, sempre con lo stesso esito.

Non entro nel merito dell’eutanasia, capisco alcune sue ragioni, reputo ragionevole stabilire dei limiti all’accanimento terapeutico o al mantenimento in vita solo artificiale, di persone che non hanno più una vita cosciente e non hanno più possibilità di riprendersi. Capisco, condivido l’umana pietà di mettere fine alla sofferenza. No, non è di questo che voglio parlare. Ma del fatto che gli unici messaggi ideali e morali, civili e individuali che vengono diramati dalle messaggerie culturali dell’epoca nostra sono rivolti alla morte, al pensiero negativo, alla preferenza per il non essere rispetto all’essere. E l’unica sovranità riconosciuta è di tipo individuale e ancora negativo, come il potere di uscire dalla vita.

Rovesciando il punto di osservazione, noto che l’eutanasia è l’unico messaggio dominante sul passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le eredità che lascia a chi resta, ma solo la possibilità del singolo di tagliare il nodo gordiano, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. Questa recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno. L’eutanasia è l’ultimo decisionismo dell’occidente-uccidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, in una via di fuga individuale. Autonomi nella dissoluzione, libertà come cupio dissolvi.  Aleggia in questa ossessione dell’eutanasia il segno di una società stanca e sfiduciata, demotivata e ripiegata nella vita singola, isolata, popolata da vecchi, impauriti dall’incipiente soglia; che allestisce terapie, balsami e culture utili a giustificare il trapasso indolore e inodore, asettico, verso l’estinzione. Un nirvana per via sanitaria, un nichilismo clinico come sollievo dal dolore di esistere.  Nei millenni passati furono attrezzati grandi cerimoniali per accompagnare la vita nel suo fatale distacco; riti, liturgie, pensieri, opere e missioni, lasciti, eredi e testamenti. Vedevo ieri sera splendidi tableau vivant a Castellabate nel corso del premio Pio Alferano, in cui venivano inscenate alcune grandi opere pittoriche a tema religioso, in prevalenza sulla morte di Gesù Cristo: colpiva vedere la morte come atto corale, corpi viventi intrecciati a corpi morenti, dolore consorte, compagnia dell’addio. La nostra è invece morte ospedaliera, in solitudine.

Fino a pochi anni fa l’unica eutanasia riconosciuta era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per la Causa che trascende la vita dei singoli. Inconcepibile oggi; ma di queste scelte estreme vorrei sottolineare la convinzione che la morte individuale fosse meno importante rispetto a entità, principi, realtà comunitarie che sopravvivono al destino dei singoli. Offrivi la vita sapendo che la tua morte non coincideva col nulla, ma era la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la tua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessun uomo di senno e di buon senso può rifugiarsi in quel paragone e limitarsi a rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte solo nell’atto di andarcene, in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte o la malattia, è il tema di cui dovremmo curarci, perché investe noi oggi, il nostro tempo, il nostro domani. Sconforta osservare che anche su questo tema non esiste alcuna divergenza di vedute nei racconti pubblici, non c’è un film o un’opera che dica una cosa diversa se non opposta a quella del mainstream mortifero. E stiamo parlando di una società che celebra la libertà sopra ogni cosa e ritiene anzi di essere superiore a tutte le epoche precedenti proprio per la sua raggiunta libertà. E invece non c’è possibilità di vedere e narrare diversamente le cose; non è possibile, esiste un muro invisibile, una cappa pervasiva che impedisce di articolare un pensiero differente e metterlo poi su strada. Se ci provi ti saltano a uno a uno gli addendi: non trovi chi si esponga a scrivere, a sceneggiare, a produrre l’opera, a realizzarla, a recitare, a distribuire, a comunicare, a riconoscere e premiare una cosa del genere. Strada facendo il progetto si azzoppa, nessuno vuol andare a sbattere contro il muro, andare allo sbaraglio. Eutanasia del dissenso.

Noi occidentali viviamo in una società profondamente spaccata, con rari e confusi attraversamenti fra le due sponde; siamo divisi tra l’alto e il basso, tra oligarchie e popoli, tra comunitari e individualisti, fra tradizione e liberazione, e potrei a lungo continuare. Non immagino che si possa ritrovare l’unità, se non attraverso l’intolleranza, l’egemonia e la supremazia coatta di una parte sull’altra: vorrei invece che fosse possibile avere la possibilità di scegliere, che sia legittimo divergere e soprattutto che sia possibile esprimerlo pubblicamente. Ma se guardo la realtà, al momento, non vedo segnali e aperture. Chiedono la libertà dell’eutanasia ma io vedo l’eutanasia della libertà.

Marcello Veneziani    

“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

 

Crepet, genitori ed insegnanti devono rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità: “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna avere coraggio…
“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

In un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo e dove occorre sempre ostentare per poter vivere serenamente, in un mondo in cui è più importante l’apparire che l’essere, diventa sempre più difficile soffermarsi e riflettere su delle tematiche rilevanti, pertinenti alla nostra persona, al nostro animo, ma soprattutto alla nostra felicità.A tal fine Paolo Crepet, nel suo libro “Mordere il cielo”, pone l’accento proprio su tale aspetto. Lo psichiatra coglie l’occasione per rammentarci quando negli anni Settanta sul mercato farmaceutico fu inserito il Prozac, la cd “pillola della felicità”.Il principio farmacologico su cui si basava il Prozac era la fluoxetina: una molecola utile per combattere la depressione, l’ansia, attacchi di panico ma anche bulimia o condotte suicidarie. Si arrivò così ad una “commercializzazione del benessere”: l’idea di non aver più bisogno di un percorso con uno psicoterapeuta, lungo e costoso, e di poter vivere serenamente, raggiungere un proprio equilibrio psicofisico senza alcuno sforzo e senza alcuna perdita di tempo, cominciò a diventare predominante. Ciò che lascia basiti è come in poco tempo si diffuse la convinzione che bastasse una pillola per risolvere qualsiasi tipo di problema, era sufficiente solo un piccolo sforzo per preservare la salute e combattere le patologie che attanagliavano l’animo. Con il passare del tempo però questa “illusione” cominciò a svanire: gli effetti collaterali verificatisi ed un uso sconsiderato da parte dei giovanissimi creò un grande disorientamento.  L’aspetto più drammatico che iniziò a delinearsi fu proprio quello dell’utilizzo del farmaco, un antidepressivo, per poter curare disturbi alimentari, come la bulimia, nella convinzione, sviluppatasi fra migliaia di adolescenti, che ci si potesse “curare” solo con una pillola, senza sforzo, fatica e soprattutto senza alcuna responsabilità.

“L’aspetto è identità”, come sottolinea Crepet e ben presto ebbe ancora più successo e venne maggiormente utilizzato un farmaco nato originariamente per curare il diabete di tipo 2, l’Ozempic. Tale farmaco veniva utilizzato non solo per contrastare l’obesità ma anche un leggero sovrappeso, così da poter dimagrire velocemente. Si diffuse, infatti, la necessità di curare il proprio corpo, l’aspetto esteriore di una persona, si giunse ad una sorta di “terapia cosmetica”: la cura di se stessi non doveva determinare alcun aggravio, pena o preoccupazione. Attraverso la “pillola della felicità” ci si poteva deresponsabilizzare e pensare che una mera cura farmacologica potesse risolvere qualsiasi problema dell’animo: occorre essere perfetti esteticamente, il nostro corpo deve essere perfetto a tutti i costi, mentre si trascura l’aspetto interiore, quello psicologico. “La ricerca della felicità riposa nello stereotipo di un corpo che esige perfezione”, così sottolinea lo psichiatra Crepet.

Le nuove generazioni sembrano non fidarsi più del futuro, sembrano aver perso qualsiasi tipo di ambizione, aspirazione, desiderio ed allora ecco il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti: occorre rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità, occorre qualcuno che ci insegni a guardare il mondo dalla giusta prospettiva, con occhi disincantati, stupendoci, giorno dopo giorno, delle cose più semplici che però ci riempiono di felicità e di amore. La vita è davvero bellissima ed ognuno di noi ha diritto di viverla a colori, con le sue sfumature, godendosi quell’arcobaleno che contraddistingue la propria esistenza: ci saranno sicuramente giornate in cui potremmo anche intravedere alcune sfumature di grigio ma ce ne saranno altrettante in cui la felicità riuscirà a colorare la nostra vita e a renderla unica e speciale. “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna rovesciare l’evidenza, sciogliere gli spasmi delle visioni più egoistiche, preparare le valigie per il viaggio verso le idee più impronunciabili. Non c’è differenza e non c’è giudizio”, queste le parole significative e pieno di pathos di Crepet. Ciò che occorre comprendere è che “il bello è riuscire a essere imprevedibili anche nella prevedibilità”.

Bisogna avere il coraggio di scombinare le cose del mondo.“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a declinare, e a difendere”, così evidenzia il sociologo Paolo Crepet. Le nuove generazioni devono ricominciare a sognare, devono appassionarsi alla vita, vivendo ogni attimo intensamente, senza pause, interruzioni, soste: bisogna custodire gelosamente le proprie ambizioni ed i propri sogni perché solo vivendo appassionatamente, senza mai fermarsi, si potranno perseguire le proprie mete e raggiungere i risultati sperati. Non c’è tempo per omologarsi, per vivere anestetizzando le proprie emozioni, non c’è tempo per la noia e per l’ovvietà: bisogna vivere intensamente, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, portando avanti le proprie idee e convinzioni, senza ricercare mai il consenso di qualcun altro.

da__ A Scuola Oggi

 

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Che significa la parola dialettale napoletana” cazzimma” ?

 

La lingua napoletana è ricca di espressioni colorite e intraducibili in italiano, capaci di condensare in poche sillabe interi mondi di significato. Tra queste c’è “cazzimma”, probabilmente derivata da una derivazione del termine volgare con cui si indica l’organo sessuale maschile. Questa parola, intrinsecamente legata alla cultura e al modo di pensare partenopeo, racchiude un concetto complesso il cui significato mescola astuzia, furbizia, e una buona dose di spietatezza.

Origini e diffusione del termine “cazzimma”

La “cazzimma” nasce nel cuore del dialetto napoletano, un idioma che da secoli è un crogiolo di influenze linguistiche e culturali.  L’etimologia della parola è incerta; secondo il Dizionario storico dei gerghi italiani di Ernesto Ferrero, viene utilizzata per indicare un insieme di atteggiamenti negativi: “autorità, malvagità, avarizia, pignoleria, grettezza”. Sebbene la definizione sia piuttosto generica, il dizionario fornisce una rara testimonianza lessicografica della voce “cazzimma” che, invece, non è presente nei maggiori dizionari dialettali napoletani, probabilmente perché considerata volgare.

L’espressione diviene d’uso comune fra gli anni ’50 e ’80, sopratutto grazie al cantante Pino Daniele che ci regala una delle prime attestazioni del termine nella sua canzone A me me piace ’o blues:
«tengo a cazzimma e faccio tutto quello che mi va»,
e a chi gliene chiede spiegazione risponde:
“Designa la furbizia accentuata, la pratica costante di attingere acqua per il proprio mulino, in qualunque momento e situazione, magari anche sfruttando i propri amici più intimi, i propri parenti […]. È l’attitudine a cercare e trovare, d’istinto, sempre e comunque, il proprio tornaconto, dai grandi affari o business fino alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè”;
La parola d’altro canto esisteva già in precedenza, seppur con un significato diverso. La sua origine potrebbe essere una combinazione data dal nome volgare dell’organo sessuale maschile, usato nel dialetto come espressione enfatizzante, e il suffisso napoletano –imma che ne amplifica il significato. Oggi, il termine si è evoluto, assumendo connotazioni che vanno dalla semplice furbizia alla malizia più calcolata.

L’uso quotidiano della parola “cazzimma”

Nella quotidianità la “cazzimma” è, ad esempio, la strategia sottile del venditore che riesce a spuntare un prezzo più alto oppure il modo in cui una persona riesce a tirarsi fuori da una situazione difficile con una battuta arguta. Ma può manifestarsi anche in atteggiamenti negativi, come quando si prova a manipolare qualcun altro a proprio vantaggio e senza alcuno scrupolo. In molte rappresentazioni della cultura popolare napoletana, la cazzimma è quasi un marchio di fabbrica dei personaggi che, immersi in un contesto sociale difficile, usano la loro astuzia per navigare tra le insidie della vita quotidiana. Sebbene il concetto possa sembrare negativo, in alcune situazioni la cazzimma è percepita come un segno di intelligenza e prontezza, un modo per emergere in un contesto complesso e spesso ostile, soprattutto se calato nella cultura napoletana, dove l’arte di arrangiarsi è vista come una qualità indispensabile per affrontare le difficoltà quotidiane ,superarle, ma anche di trasformarle a proprio vantaggio. E’ un concetto che racchiude un’intelligenza pratica, quella che permette di trovare soluzioni in situazioni dove altre persone vedrebbero solo ostacoli. E questa dualità rende la cazzimma un concetto così affascinante e profondamente radicato nella cultura partenopea.

Fonte_Accademia della Crusca

 

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