Il desiderio di essere migliori (degli altri)…

 

Dopo aver finito un lavoro complesso che ha dato ottimi risultati, dopo aver cucinato una serie di delizie per la cena con gli amici, ecco che al momento del trucco e parrucco davanti allo specchio tutto precipita: che capelli brutti, che faccia pesta, quante rughe, accidenti, così non si può andare avanti, ci vorrebbe un anno di lifting, e via di seguito in un crescendo di insoddisfazione che nasce dall’autocritica spietata miscelata al confronto con un’immagine ideale che forse risale a 20 anni o, peggio, per ovvi motivi non regge il paragone con la modella della porta accanto, diciassettenne filiforme alta 1,83 che si nutre di sedano.

Ma perché farsi del male? Perché non smetterla di competere con noi stessi e con il resto del mondo?

Se solo riuscissimo ad ammettere che la corsa continua a voler essere sopra la media per sentirci meritevoli di approvazione quando non addirittura d’amore, unita al bisogno di essere perfetti in tutto non dà la felicità ma, piuttosto, porta a essere scontenti e, soprattutto, a non amarci. Alcuni psicologi hanno dato un nome -self-compassion- al potere che la compassione verso noi stessi ci offre, aiutandoci a gestire le emozioni distruttive, perché è esattamente questo sentimento di benevolenza che siamo più propensi a sperimentare verso il prossimo che verso le nostre auguste persone che ci può aiutare a cambiare: se impariamo a trattarci con la stessa gentilezza, sensibilità e cura (in pratica, con la stessa compassione) con cui trattiamo chi soffre attorno a noi, abbandoneremo la maggior parte dei nostri pensieri autocritici.

Lasceremo andare quel continuo dialogo interiore che ha la forma di svalutazione costante e spietata e che ci porta a formulare nei nostri confronti (mai di qualcun altro, per carità), giudizi incontrovertibili come: «Ti sei comportata/o da idiota», oppure: «Non ce la farai mai». Sono atteggiamenti talmente comuni queste feroci autocritiche e questi comportamenti, che viene da pensare che chi li mette in atto lo faccia per assicurarsi l’accettazione altrui, un po’ come se preventivamente si dicesse: «Mi critico io prima che lo faccia tu». Un po’ come se fossimo stati programmati per non piacerci, per non essere mai abbastanza contenti, e forse è quello che impariamo in famiglia, quando madri e padri utilizzano la critica continua come mezzo per migliorare i figli, e nel cervello dei ragazzi si stampa come un tatuaggio quella modalità denigratoria che nella vita adulta diventerà l’abituale: «Potevi fare di più», «Non sei all’altezza».

Ma invece di condannarci per i nostri sbagli e fallimenti possiamo abbandonare le aspettative irreali di perfezione che ci rendono insoddisfatti, e iniziare a trattarci con la compassione di cui abbiamo bisogno, considerando che siamo esseri umani, quindi per definizione imperfetti, connessi e non isolati dagli altri: questo succede se non opponiamo più resistenza alla sofferenza e cominciamo ad elaborare le circostanze difficili che la vita ci propone con gentilezza. Molte persone pensano di non dover essere gentili con se stesse, specialmente se hanno ricevuto questo messaggio nell’infanzia, oppure se pensano che l’auto-compassione sia sinonimo di autoindulgenza. Ma la gentilezza verso sé comporta molto di più che smettere di auto-giudicarci. Implica saperci dare conforto, reagendo come faremmo con un caro amico. E se il nostro dolore è causato da un passo sbagliato che abbiamo fatto, è il momento giusto per offrirci compassione.

Quando plachiamo le nostre menti agitate con gentilezza e compassione invece di denigrarci siamo in grado di notare cos’è giusto e cos’è sbagliato, in modo da poterci orientare verso ciò che ci dà gioia, cominciando finalmente a smettere di chiederci: «Sono bravo come gli altri?». Interrompere questo ciclo è possibile. Non che sia facile, ma il modo per contrastare l’auto-criticismo è individuarlo, capirlo e sostituirlo con una risposta più gentile. Se ci soffermiamo e riconosciamo la nostra sofferenza -come faremmo ascoltando un nostro amico o una nostra amica in difficoltà- non potremmo non commuovervi davanti al nostro dolore. Spesso non siamo in grado di accettare che stiamo soffrendo perché la cultura occidentale tende a esortarci a stringere i denti, a tener duro e probabilmente ci è stato insegnato che non dobbiamo lamentarci, che dobbiamo essere forti e mostrare sofferenza è da deboli. Ma visto che la nostra cultura ci invita anche ad essere gentili con gli amici, la famiglia, i vicini di casa e non solo quando si trovano in difficoltà, perché non dovremmo comportarci con altrettanta gentilezza con noi stessi?

Quando commettiamo un errore o falliamo, perché dovremmo anche darci una mazzata in testa invece della pacca sulla spalla che avremmo tanto bisogno? Magari abbiamo sempre fatto così, e probabilmente il solo pensiero di confortarci ci sembra assurdo, ma c’è la possibilità di modificare il nostro modo di vedere le cose. Anche se quando il dolore proviene dall’auto-giudizio è difficile da riconoscere per quello che è, cioè un momento di sofferenza, se impariamo a lasciarci commuovere dai tormenti che proviamo a causa della tendenza a criticarci sempre, e a provare benevolenza e gentilezza nei nostri confronti, sperimentiamo il desiderio di guarigione. Che coincide con il momento in cui diciamo basta al dolore auto-inflitto. Quando arriviamo a riconoscere che la debolezza e l’imperfezione sono parte dell’esperienza umana, siamo connessi ai nostri compagni di viaggio nella vita, vulnerabili e imperfetti come noi. Possiamo lasciar andare il desiderio di sentirci migliori di quello che siamo e migliori degli altri.

Anna Tagliacarne

migliori

Figli e genitori…

Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.

“Me ne cado, “mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.

“Ma a salire su questa navetta,” ha detto il marito indicandola oltre il vetro, “ce la fai.”

“Mi piace tanto viaggiare”, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.

La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.

“E la crociera parte da Genova?, “ho chiesto.

“No, da Atene.”

Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via   . Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati. Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto. Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.

Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole – che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.

Rosella Postorino

 

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Ho scritto su Instagram “gelato al finocchio” e mi hanno tolto l’accesso al profilo…

Alcune foto pubblicate, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”. Chissà quali erano le parole offensive.

“Gelato al finocchio”. Finocchio non si può dire nemmeno parlando di ortaggi o almeno non posso dirlo io, attenzionato come omofobo, suppongo. Ho pubblicato su Instagram alcune foto, normalissimi primi piani, di piatti gustati al ristorante Lemelae di Gallio, altopiano di Asiago: “Riso al porro bruciato”, “Lumache alla brace”, “Pecora”, “Gelato al finocchio”.  Prima mi è arrivato un messaggio esortante a modificare il post o a fare ricorso. Una comunicazione estremamente vaga dalla quale non si capiva se il problema fossero le parole “bruciato” e “brace” (troppo ustionanti?) o la parola “pecora” (troppo porno?) o la parola “finocchio” (troppo discriminante?). Io non ho modificato nulla (avrei dovuto scrivere “gelato al Foeniculum vulgare?”) e ho fatto ricorso: per tutta risposta mi hanno tolto l’accesso al profilo. Poi dicono la libertà di espressione. Sia lodato Elon Musk.

Camillo Langone __da___Il Foglio
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Eutanasia della libertà…

 

Viva la muerte, gridavano in Spagna ai tempi della guerra civile. Viva la muerte è il messaggio che manda lo spagnolo Pedro Almodovar dalla Mostra del Cinema per liberarci dal dolore di vivere, ma in un significato assai diverso da quel grido. Dopo aver dichiarato morto Dio con le sue religioni e preghiere, morta la Natura col suo ordine e le sue leggi, morta la famiglia con i suoi legami, morta la tradizione con la storia e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la decreazione, la libertà di eliminarci. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita e lo esercitiamo fino alla morte. Da tempo i messaggi pubblici inviati dalle maggiori agenzie di riferimento della nostra epoca, tra i quali spiccano il cinema e la tv, ruotano intorno a quei temi e si raccolgono infine nell’elogio dell’eutanasia. Almodovar ha vinto il Leon d’Oro a Venezia col suo film dedicato all’eutanasia – ancora una volta, Morte a Venezia – ma non era un tema originale, è da alcuni anni un filone cospicuo nella narrativa cinematografica della nostra epoca, sempre con lo stesso esito.

Non entro nel merito dell’eutanasia, capisco alcune sue ragioni, reputo ragionevole stabilire dei limiti all’accanimento terapeutico o al mantenimento in vita solo artificiale, di persone che non hanno più una vita cosciente e non hanno più possibilità di riprendersi. Capisco, condivido l’umana pietà di mettere fine alla sofferenza. No, non è di questo che voglio parlare. Ma del fatto che gli unici messaggi ideali e morali, civili e individuali che vengono diramati dalle messaggerie culturali dell’epoca nostra sono rivolti alla morte, al pensiero negativo, alla preferenza per il non essere rispetto all’essere. E l’unica sovranità riconosciuta è di tipo individuale e ancora negativo, come il potere di uscire dalla vita.

Rovesciando il punto di osservazione, noto che l’eutanasia è l’unico messaggio dominante sul passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le eredità che lascia a chi resta, ma solo la possibilità del singolo di tagliare il nodo gordiano, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. Questa recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno. L’eutanasia è l’ultimo decisionismo dell’occidente-uccidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, in una via di fuga individuale. Autonomi nella dissoluzione, libertà come cupio dissolvi.  Aleggia in questa ossessione dell’eutanasia il segno di una società stanca e sfiduciata, demotivata e ripiegata nella vita singola, isolata, popolata da vecchi, impauriti dall’incipiente soglia; che allestisce terapie, balsami e culture utili a giustificare il trapasso indolore e inodore, asettico, verso l’estinzione. Un nirvana per via sanitaria, un nichilismo clinico come sollievo dal dolore di esistere.  Nei millenni passati furono attrezzati grandi cerimoniali per accompagnare la vita nel suo fatale distacco; riti, liturgie, pensieri, opere e missioni, lasciti, eredi e testamenti. Vedevo ieri sera splendidi tableau vivant a Castellabate nel corso del premio Pio Alferano, in cui venivano inscenate alcune grandi opere pittoriche a tema religioso, in prevalenza sulla morte di Gesù Cristo: colpiva vedere la morte come atto corale, corpi viventi intrecciati a corpi morenti, dolore consorte, compagnia dell’addio. La nostra è invece morte ospedaliera, in solitudine.

Fino a pochi anni fa l’unica eutanasia riconosciuta era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per la Causa che trascende la vita dei singoli. Inconcepibile oggi; ma di queste scelte estreme vorrei sottolineare la convinzione che la morte individuale fosse meno importante rispetto a entità, principi, realtà comunitarie che sopravvivono al destino dei singoli. Offrivi la vita sapendo che la tua morte non coincideva col nulla, ma era la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la tua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessun uomo di senno e di buon senso può rifugiarsi in quel paragone e limitarsi a rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte solo nell’atto di andarcene, in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte o la malattia, è il tema di cui dovremmo curarci, perché investe noi oggi, il nostro tempo, il nostro domani. Sconforta osservare che anche su questo tema non esiste alcuna divergenza di vedute nei racconti pubblici, non c’è un film o un’opera che dica una cosa diversa se non opposta a quella del mainstream mortifero. E stiamo parlando di una società che celebra la libertà sopra ogni cosa e ritiene anzi di essere superiore a tutte le epoche precedenti proprio per la sua raggiunta libertà. E invece non c’è possibilità di vedere e narrare diversamente le cose; non è possibile, esiste un muro invisibile, una cappa pervasiva che impedisce di articolare un pensiero differente e metterlo poi su strada. Se ci provi ti saltano a uno a uno gli addendi: non trovi chi si esponga a scrivere, a sceneggiare, a produrre l’opera, a realizzarla, a recitare, a distribuire, a comunicare, a riconoscere e premiare una cosa del genere. Strada facendo il progetto si azzoppa, nessuno vuol andare a sbattere contro il muro, andare allo sbaraglio. Eutanasia del dissenso.

Noi occidentali viviamo in una società profondamente spaccata, con rari e confusi attraversamenti fra le due sponde; siamo divisi tra l’alto e il basso, tra oligarchie e popoli, tra comunitari e individualisti, fra tradizione e liberazione, e potrei a lungo continuare. Non immagino che si possa ritrovare l’unità, se non attraverso l’intolleranza, l’egemonia e la supremazia coatta di una parte sull’altra: vorrei invece che fosse possibile avere la possibilità di scegliere, che sia legittimo divergere e soprattutto che sia possibile esprimerlo pubblicamente. Ma se guardo la realtà, al momento, non vedo segnali e aperture. Chiedono la libertà dell’eutanasia ma io vedo l’eutanasia della libertà.

Marcello Veneziani    

“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

 

Crepet, genitori ed insegnanti devono rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità: “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna avere coraggio…
“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

In un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo e dove occorre sempre ostentare per poter vivere serenamente, in un mondo in cui è più importante l’apparire che l’essere, diventa sempre più difficile soffermarsi e riflettere su delle tematiche rilevanti, pertinenti alla nostra persona, al nostro animo, ma soprattutto alla nostra felicità.A tal fine Paolo Crepet, nel suo libro “Mordere il cielo”, pone l’accento proprio su tale aspetto. Lo psichiatra coglie l’occasione per rammentarci quando negli anni Settanta sul mercato farmaceutico fu inserito il Prozac, la cd “pillola della felicità”.Il principio farmacologico su cui si basava il Prozac era la fluoxetina: una molecola utile per combattere la depressione, l’ansia, attacchi di panico ma anche bulimia o condotte suicidarie. Si arrivò così ad una “commercializzazione del benessere”: l’idea di non aver più bisogno di un percorso con uno psicoterapeuta, lungo e costoso, e di poter vivere serenamente, raggiungere un proprio equilibrio psicofisico senza alcuno sforzo e senza alcuna perdita di tempo, cominciò a diventare predominante. Ciò che lascia basiti è come in poco tempo si diffuse la convinzione che bastasse una pillola per risolvere qualsiasi tipo di problema, era sufficiente solo un piccolo sforzo per preservare la salute e combattere le patologie che attanagliavano l’animo. Con il passare del tempo però questa “illusione” cominciò a svanire: gli effetti collaterali verificatisi ed un uso sconsiderato da parte dei giovanissimi creò un grande disorientamento.  L’aspetto più drammatico che iniziò a delinearsi fu proprio quello dell’utilizzo del farmaco, un antidepressivo, per poter curare disturbi alimentari, come la bulimia, nella convinzione, sviluppatasi fra migliaia di adolescenti, che ci si potesse “curare” solo con una pillola, senza sforzo, fatica e soprattutto senza alcuna responsabilità.

“L’aspetto è identità”, come sottolinea Crepet e ben presto ebbe ancora più successo e venne maggiormente utilizzato un farmaco nato originariamente per curare il diabete di tipo 2, l’Ozempic. Tale farmaco veniva utilizzato non solo per contrastare l’obesità ma anche un leggero sovrappeso, così da poter dimagrire velocemente. Si diffuse, infatti, la necessità di curare il proprio corpo, l’aspetto esteriore di una persona, si giunse ad una sorta di “terapia cosmetica”: la cura di se stessi non doveva determinare alcun aggravio, pena o preoccupazione. Attraverso la “pillola della felicità” ci si poteva deresponsabilizzare e pensare che una mera cura farmacologica potesse risolvere qualsiasi problema dell’animo: occorre essere perfetti esteticamente, il nostro corpo deve essere perfetto a tutti i costi, mentre si trascura l’aspetto interiore, quello psicologico. “La ricerca della felicità riposa nello stereotipo di un corpo che esige perfezione”, così sottolinea lo psichiatra Crepet.

Le nuove generazioni sembrano non fidarsi più del futuro, sembrano aver perso qualsiasi tipo di ambizione, aspirazione, desiderio ed allora ecco il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti: occorre rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità, occorre qualcuno che ci insegni a guardare il mondo dalla giusta prospettiva, con occhi disincantati, stupendoci, giorno dopo giorno, delle cose più semplici che però ci riempiono di felicità e di amore. La vita è davvero bellissima ed ognuno di noi ha diritto di viverla a colori, con le sue sfumature, godendosi quell’arcobaleno che contraddistingue la propria esistenza: ci saranno sicuramente giornate in cui potremmo anche intravedere alcune sfumature di grigio ma ce ne saranno altrettante in cui la felicità riuscirà a colorare la nostra vita e a renderla unica e speciale. “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna rovesciare l’evidenza, sciogliere gli spasmi delle visioni più egoistiche, preparare le valigie per il viaggio verso le idee più impronunciabili. Non c’è differenza e non c’è giudizio”, queste le parole significative e pieno di pathos di Crepet. Ciò che occorre comprendere è che “il bello è riuscire a essere imprevedibili anche nella prevedibilità”.

Bisogna avere il coraggio di scombinare le cose del mondo.“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a declinare, e a difendere”, così evidenzia il sociologo Paolo Crepet. Le nuove generazioni devono ricominciare a sognare, devono appassionarsi alla vita, vivendo ogni attimo intensamente, senza pause, interruzioni, soste: bisogna custodire gelosamente le proprie ambizioni ed i propri sogni perché solo vivendo appassionatamente, senza mai fermarsi, si potranno perseguire le proprie mete e raggiungere i risultati sperati. Non c’è tempo per omologarsi, per vivere anestetizzando le proprie emozioni, non c’è tempo per la noia e per l’ovvietà: bisogna vivere intensamente, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, portando avanti le proprie idee e convinzioni, senza ricercare mai il consenso di qualcun altro.

da__ A Scuola Oggi

 

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Che significa la parola dialettale napoletana” cazzimma” ?

 

La lingua napoletana è ricca di espressioni colorite e intraducibili in italiano, capaci di condensare in poche sillabe interi mondi di significato. Tra queste c’è “cazzimma”, probabilmente derivata da una derivazione del termine volgare con cui si indica l’organo sessuale maschile. Questa parola, intrinsecamente legata alla cultura e al modo di pensare partenopeo, racchiude un concetto complesso il cui significato mescola astuzia, furbizia, e una buona dose di spietatezza.

Origini e diffusione del termine “cazzimma”

La “cazzimma” nasce nel cuore del dialetto napoletano, un idioma che da secoli è un crogiolo di influenze linguistiche e culturali.  L’etimologia della parola è incerta; secondo il Dizionario storico dei gerghi italiani di Ernesto Ferrero, viene utilizzata per indicare un insieme di atteggiamenti negativi: “autorità, malvagità, avarizia, pignoleria, grettezza”. Sebbene la definizione sia piuttosto generica, il dizionario fornisce una rara testimonianza lessicografica della voce “cazzimma” che, invece, non è presente nei maggiori dizionari dialettali napoletani, probabilmente perché considerata volgare.

L’espressione diviene d’uso comune fra gli anni ’50 e ’80, sopratutto grazie al cantante Pino Daniele che ci regala una delle prime attestazioni del termine nella sua canzone A me me piace ’o blues:
«tengo a cazzimma e faccio tutto quello che mi va»,
e a chi gliene chiede spiegazione risponde:
“Designa la furbizia accentuata, la pratica costante di attingere acqua per il proprio mulino, in qualunque momento e situazione, magari anche sfruttando i propri amici più intimi, i propri parenti […]. È l’attitudine a cercare e trovare, d’istinto, sempre e comunque, il proprio tornaconto, dai grandi affari o business fino alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè”;
La parola d’altro canto esisteva già in precedenza, seppur con un significato diverso. La sua origine potrebbe essere una combinazione data dal nome volgare dell’organo sessuale maschile, usato nel dialetto come espressione enfatizzante, e il suffisso napoletano –imma che ne amplifica il significato. Oggi, il termine si è evoluto, assumendo connotazioni che vanno dalla semplice furbizia alla malizia più calcolata.

L’uso quotidiano della parola “cazzimma”

Nella quotidianità la “cazzimma” è, ad esempio, la strategia sottile del venditore che riesce a spuntare un prezzo più alto oppure il modo in cui una persona riesce a tirarsi fuori da una situazione difficile con una battuta arguta. Ma può manifestarsi anche in atteggiamenti negativi, come quando si prova a manipolare qualcun altro a proprio vantaggio e senza alcuno scrupolo. In molte rappresentazioni della cultura popolare napoletana, la cazzimma è quasi un marchio di fabbrica dei personaggi che, immersi in un contesto sociale difficile, usano la loro astuzia per navigare tra le insidie della vita quotidiana. Sebbene il concetto possa sembrare negativo, in alcune situazioni la cazzimma è percepita come un segno di intelligenza e prontezza, un modo per emergere in un contesto complesso e spesso ostile, soprattutto se calato nella cultura napoletana, dove l’arte di arrangiarsi è vista come una qualità indispensabile per affrontare le difficoltà quotidiane ,superarle, ma anche di trasformarle a proprio vantaggio. E’ un concetto che racchiude un’intelligenza pratica, quella che permette di trovare soluzioni in situazioni dove altre persone vedrebbero solo ostacoli. E questa dualità rende la cazzimma un concetto così affascinante e profondamente radicato nella cultura partenopea.

Fonte_Accademia della Crusca

 

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Chiedo silenzio…

 

Chiedo silenzio di Pablo Neruda è una delle poesie più belle del poeta cileno, un inno all’amore e alla donna della sua vita Matilde Urrutia.

Ma, soprattutto, la poesia di Neruda è una lezione sulle cose che veramente contano nella vita. C’è un momento in cui si abbandona tutto ciò che è futile banalità, seppur mascherata di grandezza, per vivere solo le cose autentiche.

Chiedo silenzio

Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.

Io chiuderò gli occhi

E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.

Una è l’amore senza fine.

La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.

La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.

La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.

La quinta cosa sono i tuoi occhi.

Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.

Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.

Ora se volete andatevene.

Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.

Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.

Accade che sono e che continuo.

Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.

È che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.

Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.

Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.

Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.

Pablo Neruda

In questi versi c’è tutta la sensibilità che un uomo matura nel tempo ,diventando sempre più quel saggio, al quale il concetto di amore è condizione essenziale del vivere.
Pablo Neruda parla agli amici che lo circondano.
E, in Pido Silencio,esordisce manifestando la voglia di isolarsi da tutto ciò che lo circonda, per esigenza di pace interiore, voglia di rigenerarsi, di rinascita, voglia di tempo per poter godere di alcune cose .Per questo ha bisogno di una pausa dal suo quotidiano,troppo affollato da quegli impegni che gli rubano tempo alle stagioni della vita, che scorrono ,inesorabilmente perdute all’amore. Il poeta vuole vivere le cose essenziali della vita, nella sua semplicità di affetti e grandi amori come quello per la moglie Matilde, i cui occhi lo fanno continuamente innamorare e godere immensa gioia. A questa felicità non vuole rinunciare per niente al mondo.

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L’anno in cui si è rotto il turismo…

Mai come quest’anno abbiamo assistito a pubbliche manifestazioni di odio nei confronti dei turisti. Reazioni comprensibili a un problema che si fa sempre più grave, ma che non è così che risolveremo.

«Cause everybody hates a tourist», tutti odiano i turisti, soprattutto «quelli che pensano che tutto sia così divertente». La migliore descrizione del clima che si è creato oggi intorno al turismo l’aveva data Jarvis Cocker dei Pulp in “Common People”, la storia della ragazza ricca che voleva scoprire come viveva la gente comune a Londra e lui non sapeva come dirle che, insomma, quello che lei trovava così interessante in realtà faceva schifo, che l’autenticità – l’illusoria materia prima alla base dell’esperienza turistica – è un’idea della vita piuttosto inutilizzabile. Quasi trent’anni dopo, il turista è diventato la figura contemporanea perfetta da odiare, deridere o entrambe le cose, e la parola overtourism è ormai entrata non solo nel linguaggio comune ma anche nel dibattito pubblico italiano. In molte località sotto pressione turistica c’è un mood tra il fastidio collettivo e la rivolta, le pistole ad acqua a Barcellona, i droni sulle spiagge in Grecia, i cortei a Palma di Maiorca, le invasioni dei punk sull’isola di Sylt. Odiare il turista però vuol dire anche odiare un po’ se stessi, il turismo è una specie di oppressione a turno, un weekend rovini la città di qualcuno, il weekend dopo qualcuno rovina la tua.  Il turismo però è anche un’esperienza democratica, un’attività collegata al riposo, al piacere, è l’estensione di un diritto conquistato a caro prezzo da generazioni precedenti, quello di fuggire dal lavoro. Nasce come antidoto alla schiavitù del tempo salariato, è diventato la più predatoria delle industrie, la perfetta espressione del realismo capitalista in cui siamo tutti prede o predatori a seconda del ritmo circadiano della produzione. In realtà ho scritto una cosa non del tutto vera: l’estrazione dei metalli che ci sono dentro questo computer è più predatoria del turismo, lo è anche la produzione della maggior parte del cibo che mangiamo e lo è ancora una gigantesca fetta della creazione di energia, quella da combustibili fossili. La predazione turistica però è più vistosa: non si può delocalizzare, non si può nascondere, è sempre lì davanti ai tuoi occhi. Il turismo è in un certo senso un errore del capitalismo, un bug del suo principio cardine. Il sistema si regge sull’idea che i costi veri di un prodotto o di un servizio si possano occultare, in paesi remoti, nella nostra psiche, nell’atmosfera o nell’oceano, ma quelli del turismo sono impossibili da nascondere. Non serve particolare elaborazione politica nel registrare che la sua espansione non governata rende impossibile affittare un appartamento, né per notare la sparizione dei servizi base, la metamorfosi dei quartieri, e la bruttezza dell’esperienza turistica in generale, quando non ne siamo noi i fruitori.

È facile odiare i turisti, oggi, perché sono un sintomo ambulante delle peggiori fratture della nostra società. Se potessimo tracciare con una bodycam la giornata di un visitatore a Roma, Firenze o Barcellona come fanno i biologi con i falchi pellegrini mentre cacciano, vedremmo che la specie umana è prossima alla bancarotta culturale. La verità, però, è che non è colpa dei turisti. Quella bruttezza è un prodotto della società della stanchezza. Che sia un city break, un’avventura nel mondo, o tutto quello che c’è in mezzo, se siamo degli adulti nel mondo contemporaneo la certezza che ci accomuna è che partiremo già stanchi. Se volessimo ancora affidarci all’arcaica e demenziale distinzione tra turista e viaggiatore, questa sarebbe la principale differenza: il viaggiatore parte riposato, ha potuto dedicare tempo a leggere, prepararsi, comprendere lo spirito del posto e le basi della sua lingua, come mescolarsi con garbo e gentilezza, senza farsi troppo notare. Se può farlo, è perché probabilmente i suoi genitori hanno di recente venduto un quadro di Tiziano o Tintoretto, non ha nessuna incombenza da lavoro salariato, e ha il privilegio del tempo che serve per studiare come non sembrare un imbecille a cui è giusto puntare contro una pistola ad acqua. Il turista invece tutto l’anno vive inseguendo la sua stanchezza, non ha tempo capire, studiare, imparare, è generalmente esausto, e quindi si affida a tutto quello che è già pronto, Tripadvisor, la Seo universale delle dieci cose da non perdere, e così via. La regola base, come nel cibo, è che meno sforzo ti richiederà, più sarà pronto, precotto, pre-confezionato, più sarà predatorio per qualcun altro. La ricerca delle stesse foto, degli stessi hashtag, degli stessi quartieri, delle stesse esperienze autentiche, la povertà delle risorse intellettuali con cui il turista si mette in ridicolo è frutto di tante cose, ma soprattutto lo è di quanto poco tempo siamo in grado dedicare alla creazione di un riposo di valore. L’estrattivismo dell’overtourism non è solo la predazione delle risorse turistiche, ma anche della stanchezza senza scampo dei turisti. Odiare i turisti è una soluzione individuale a un problema sistemico. Tu in realtà odi il capitalismo, che però è più difficile da odiare, richiede più risorse, siamo sempre nello stesso loop, quindi prenotiamo un biglietto Ryanair e proviamo a non pensarci più.

Uno degli scrittori che più hanno riflettuto su questi temi è il romanziere inglese Will Self. Self scrive che uno dei nostri problemi è quanto siamo disaccoppiati dalla geografia fisica dei luoghi. Il suo antidoto sono lunghe camminate paradossali, una volta è arrivato a New York, all’aeroporto JFK, e ha camminato da lì fino a Manhattan per quasi quaranta chilometri. Dice che questo è l’ultimo livello di vera esplorazione che rimane all’essere umano, che lui ha visto molto di più del mondo camminando in questo modo che esplorando foreste remote, e probabilmente ha ragione, ma l’originalità di esperienze così bizzarre ha il pregio di mettere a nudo la realtà e il difetto di non essere scalabile, di non servire a niente.

La verità è che un mondo senza turismo sarebbe un mondo peggiore. Conosco i profeti di questa idea, alcuni sono miei cari amici, apostoli della prossimità assoluta, del conoscere con precisione ogni pozza e ogni stagno nel raggio di dove si può arrivare a piedi o in bici e lasciar perdere tutto il resto. È un esercizio di attenzione bello, ha una sua nobiltà, ma è come la psicogeografia di Will Self: non va bene per tutti. Abbiamo ancora bisogno dell’esperienza dell’altro che ci offre il turismo, e di fare esperienza dell’altro a casa nostra, di vedere da fuori e di essere visti da fuori, dello scambio di fluidi culturali alla base del turismo. Stiamo provando in ogni modo a sfuggire all’idea che l’unico turista responsabile sia quello che sta a casa sua, il Web è pieno di articoli su come essere turisti migliori. Probabilmente, su questo livello delle soluzioni individuali, il riassunto di quei consigli è superare la scissione tra quello che siamo quando viaggiamo e quello che siamo quando non viaggiamo. Un modo per dire: le cose migliorano se non si è completamente stronzi, se ci si comporta come esseri umani accettabili anche a casa degli altri.

Basterebbe? Non basterebbe, certo che no, le soluzioni individuali finiscono sempre con l’essere puntelli del sistema. Chi vuole un cambiamento deve guardare, come sempre, nella direzione della partecipazione politica. Le rivolte a cui stiamo assistendo a vari livelli in Europa (e non solo) hanno il potere, o almeno la possibilità, di riformare il turismo, soprattutto la sua pretesa di ingovernabilità, di essere fuori da ogni giurisdizione pubblica, grazie al fatto di essere ormai gestito solo da piattaforme digitali globali. Non è certo mettere in discussione il capitalismo, ma almeno la sua pretesa più tossica: l’assenza totale di regole. Città, luoghi, comunità, hanno il diritto di metterle, delle regole. Le lotte per porre dei limiti all’estrattivismo turistico stanno anzi diventando una delle palestre politiche più interessanti nei paesi democratici. Quelle battaglie tengono insieme tutto, la lotta contro le rendite consolidate, la denuncia delle speculazioni, con la possibilità di vedere effetti anche nel breve termine, che ad altri tipi di intervento politico è preclusa (vedi le battaglie per il clima).

La derisione del turista è ingiusta, le lotte contro l’overtourism hanno il pregio della concretezza, di dare la sensazione che lo status quo non è ancora così consolidato da non poter essere smosso, le politiche abitative anti-affitti brevi come quelle di Barcellona dimostrano che c’è almeno un margine di azione. Alcune idee sono giuste, altre sono inutilmente repressive. Il punto non è regolamentare ancora di più lo spazio pubblico (sindaci che decidono dove si può mangiare e dove no, o mettono i biglietti per visitare le loro città), ma avere il coraggio di governare l’attività privata. Il turismo oggi non solo contiene una domanda di politica, è anche un banco di prova utile sull’efficacia stessa della politica, un test per l’idea che la nostra società non ha ancora superato il punto di non governabilità. Basta non mettersi a odiare i turisti, loro sono solo un sintomo, e loro sono soprattutto noi, in un altro momento dell’anno.

Ferdinando Cotugno           


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E’ diventato un volto conosciuto grazie al docu-reality “Il collegio”. Ai suoi alunni insegna che la filosofia è l’lingrediente giusto per salvarsi dal baratro. “Troppi esperti hanno un’immagine stereotipata dei ragazzi”.

 

Intervista ad Andrea Maggi

Lo hanno definito “il professore più amato d’Italia”. Grazie al docu-reality ‘Il collegio’ trasmesso su Rai 2 per otto edizioni, e al programma ‘Splendida cornice’ su Rai 3, Andrea Maggi conta più di 400 mila follower su Instagram e oltre 500 mila su TikTok. Perciò, quando dice che la filosofia è l’ingrediente giusto per salvare gli adolescenti dai fossi – e dai baratri – lungo il cammino qualche credito bisogna darglielo. Il 2 settembre il professore ha ripreso servizio nella scuola di Sacile, provincia di Pordenone, dove insegna lettere, e l’indomani è uscito in libreria ‘Il mio Socrate’ per Giunti, romanzo e dialogo tra una quattordicenne tormentata e un avatar del filosofo greco, che le indica la strada per la libertà e la felicità. Difficile intanto non pensare alla tragedia di Paderno Dugnano, dove un male insondabile ha spinto un diciassettenne a sterminare la famiglia nella notte del primo settembre. Difficile commentarla senza consumare cliché.

Ha ascoltato le considerazioni degli esperti?

Senza dubitare delle loro competenze, mi chiedo perché quando si parla di giovani non si privilegino le voci degli insegnanti, che lavorano in prima linea e conoscono le cose in presa diretta. Spesso gli esperti hanno smesso da un pezzo di avere contatti personali con i ragazzi e ne hanno un’immagine distorta dal ricordo e stereotipata, come di manichini immutabili nel tempo.

Dica la sua opinione.

Non posso giudicare il caso specifico, ma credo che il malessere diffuso tra i ragazzi sia dovuto in larga parte all’assenza della parola nella paradossale società dell’infosfera, dove si sa tutto in tempo reale ma si chiudono i ponti di comunicazione tra i suoi membri, anche dentro le famiglie. Quando si azzerano le parole per esprimere disagio o inquietudine, ci si involve in un isolamento che può portare alla chiusura, alla sindrome dell’hikikomori, o a una esplosione di violenza.

La ricetta filosofica è davvero praticabile?

Cominciai a riflettere al libro un paio d’anni fa, quando una ragazza di terza media mi chiese: “Cos’è la filosofia?”. Pensai che Socrate potesse raccontarlo, che fosse un tramite per ripristinare il dialogo come confronto e aiuto. Il recupero della parola come di un bene che ci è stato tolto. Chi sa dare un nome al suo male è per metà guarito.

I social hanno rubato le parole ai ragazzi?

Non sono i soli responsabili, ma il rischio è che riducano il confronto e favoriscano su ogni argomento le tifoserie invece del pensiero logico. La filosofia è una medicina possibile: insegno in una scuola secondaria di primo grado e se parlo del paradosso di Zenone i ragazzi ne sono affascinati come da una favola. La filosofia declinata a seconda dell’uditorio può essere una compagna di viaggio fin dalla tenera età perché aiuta a dialogare anche con se stessi e a evitare, per esempio, che ci si iscriva alle superiori o a una facoltà universitaria influenzati dai sogni altrui senza conoscere i propri.

Quanto servono gli psicologi?

Quando la terapia coinvolge la famiglia. I genitori non devono pensare di tenersi fuori e delegare tutto alla scuola e al terapeuta. Noi insegnanti spesso ci troviamo soli a lottare ad armi impari contro un mondo che smentisce i modelli che cerchiamo di inculcare e identifica la felicità con l’auto di lusso e gli orologi costosi. Non basta un “pandoro-gate” a dimostrare la fragilità degli influencer, perché ne spuntano subito altri.

La felicità come si persegue?

Con la conoscenza di sé. Ho in mente un vicino di casa che aveva un grande talento per la falegnameria ma ha fatto l’operaio tutta la vita. Ora che è in pensione mi dice: “Sono stati quarant’anni di galera”.

I ragazzi pensano al futuro?

Nella società del boom erano tutti proiettati al futuro. Oggi si vive in un presente continuo e ci sono solo vaghe, ma alte aspettative sul domani. Non tutti faranno i soldi come youtuber e questo genererà frustrazione, perciò bisogna attrezzarsi a comprendere che la ricchezza non è la felicità.

Servono le buone letture?

Se la lettura è vista come “cosa della scuola” diventa antipatica. Dovrebbe essere una consuetudine familiare, però i genitori non possono invitarti a leggere e poi smanettare sullo smartphone senza aprire un libro.

Cosa fa leggere ai suoi alunni?

L’anno scorso ‘Il Milione’ di Marco Polo. Superata l’osticità della lingua, hanno scoperto che l’uomo medievale abitava il mondo con una presenza concreta, analitica, attenta alle altre culture. Che era molto più moderno di quanto non si creda. Quest’anno vorrei leggere brani da ‘La Gerusalemme liberata’ per far capire tante cose sulla guerra.

Com’è recepita la poesia?

È messa male. Il congelamento della parola la uccide e l’amore è visto più come possesso che con romanticismo. I maschi controllano i profili social delle fidanzatine e guai a sgarrare, e le ragazze si assoggettano. È come se si fosse interrotta la comunicazione anche con certe conquiste del passato. Come se la Generazione Alpha ricominciasse da zero. Bisogna riaprire i ponti con tutta la storia. Far sapere che in Afghanistan e in Iran prima del burqa e del velo c’è stata la minigonna, e i musulmani che combattevano per Francesco Giuseppe avevano per slogan: niente rum, niente battaglia.

Un altro fenomeno sommerso dai luoghi comuni è il bullismo.

Se ne parla in occasione di episodi eclatanti, ma nelle forme più striscianti è quotidiano, un altro frutto delle frustrazioni di chi vive una vita che non ritiene sua. La prevenzione è ancora nel dialogo. Torniamo sempre a Socrate.

Francesco Palmieri

 

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