La santa schizofrenia di Natale

 

 

 

Santa allegria è forse il titolo più appropriato per sintetizzare lo spirito natalizio in purezza. Quell’incontro solenne e festoso tra sacro e regali, tra natività e scorpacciate, rende Natale e il suo lungo strascico un periodo gioioso, anche se a volte con un risvolto noioso. Ma da molti il Natale è vissuto con santa schizofrenia e, per quel che mi riguarda con una punta di allegra malinconia. Non da oggi, non solo da anziano, ma accadeva pure da ragazzo, e poi da adulto maturo. A Natale molti nodi vengono al pettine, inclusi i nodi alla gola.

Da dove nasce questa schizofrenia? Da una condizione irrisolta di vita, da un’ambiguità che ci trasciniamo nei giorni e che a Natale si manifesta con illuminante chiarezza. Per cominciare, Natale è la festa della famiglia, ed è inevitabile che vengano al pettine e si condensino tutti i nodi che ci fanno amare e ci fanno soffrire la famiglia: i suoi affetti ma anche le sue mancanze, le sue presenze ma anche le sue assenze, le sue premure e le sue dolcezze ma anche le sue delusioni e incomprensioni, le sue fedeltà e i suoi tradimenti, i suoi doni e i suoi pesi. A Natale si rende visibile, come in un test, un check-up, una specie di risonanza magnetica fin dentro l’anima e la mente, tutto ciò che ci lega alla famiglia, nel senso affettivo o coattivo, legami che curano o legami che soffocano, legami d’amore o catene. La lunga convivenza di ore, tra pause e interminabili pranzi, oziose compagnie, ti restituiscono come in un presepe vivente una dimensione a lungo rimossa, a cui non siamo più abituati. Ritrovi nella sua pienezza la famiglia, rivivono le relazioni parentali, si fa cerchio intorno a un focolare. A volte hai voglia di uscire dalla casa natalizia per respirare, per riprendere te stesso, perfino la tua solitudine e i tuoi problemi; ma sai già che appena finirà quella seduta collettiva chiamata festività natalizia, che magari avevi a lungo pregustato, ne sentirai la nostalgia: prima, infatti, aspettavi di vivere quell’atmosfera, volevi rivivere tra quelle care atmosfere, rivedere i tuoi cari finalmente rilassati e uniti intorno a una tavola. Invece ora, mentre la vivi, sogni di evaderne.

Confessi allora di sentirti anfibio, o meglio il suo contrario: non ti senti a tuo agio né dentro quell’universo né fuori; ti senti pesce fuor d’acqua quando ne sei fuori e uccello in gabbia quando sei dentro. Nec tecum nec sine te vivere possum, dicevano gli antichi: non riusciamo a vivere né con loro né senza di loro. A Natale questa condizione esplode e tu ti senti come sdoppiato.

La stessa schizofrenia si riflette davanti alla sovrabbondanza di leccornie natalizie, all’overdose di regali, di luci, di riti e di giochi, di baci e di auguri. Tutto ciò che può farti piacere alla fine ti sazia, ti annoia, ti nausea fino al disgusto. Tutto il bendiddio natalizio si capovolge in rigetto e maledizione, si fa insopportabile, indigeribile. A volte ti senti un cappone all’ingrasso, e vedi la tua vita natalizia come un tubo digerente in forma di corridoio che collega la cucina al bagno.

Ma la schizofrenia investe anche la matrice religiosa della festa e perciò diventa santa schizofrenia: ti accorgi che laddove cresce la sacralità là cresce anche la tentazione a dissacrare. Vivi in una condizione impossibile, tra l’angelico e il bestiale, tra l’agnello di Dio e il capro diabolico, senza possibilità di mediazione ma solo di alternanza; e ti accorgi che nei giorni di Natale dai il meglio e il peggio di te. A Natale non si diventa più buoni, ma si diventa più in ogni cosa: più buoni ma anche più insofferenti, più grassi e più indolenti, più spirituali e più materialisti, più affettuosi e più permalosi.

A Natale avvertiamo di più il nostro rapporto con Dio e quando quel rapporto non c’è ne avvertiamo ancor più la sua estraneità: è per questo che a Natale ci sentiamo più credenti o più atei rispetto ai giorni normali. Anzi, molti si sentono più religiosi e più atei allo stesso tempo, la schizofrenia si fa più vistosa perché Dio torna a farsi vedere, anche in un presepe e a noi tocca reagire alla sua presenza o apparenza. Natale è il punto d’incontro tra il nostro incanto e il nostro disincanto.

I giorni di Natale sono pure un test sulla vita liberata dalla necessità e dal lavoro, in balia della libertà e degli obblighi che sorgono stranamente proprio quando si è liberi. Finché siamo trascinati dall’ordinaria amministrazione della vita, sfuggiamo al senso della vita e dei giorni, abbiamo troppi alibi, troppi obblighi, troppe cose da fare; ma a Natale siamo in pausa, sbattuti davanti allo specchio, siamo più nudi e disarmati al cospetto della nostra vita, la nostra condizione, la nostra solitudine e le nostre relazioni; dunque ci tocca rispondere e ci tocca perfino riflettere su quel che riflettono gli specchi. Il tempo che passa, il mondo che ci circonda.

Perciò non condivido quanti ripetono che il vero capodanno è il primo settembre, dopo la pausa estiva. Hanno un’idea esclusivamente feriale-lavorativa della condizione umana. Invece no, è tra Natale e la fine dell’anno che ci scorre intero come nei titoli di coda il senso della vita, unito al non senso, le sue verità e le sue vanità, più dolci e più amare, e anche le sue incongruenze; ed è adesso, nel periodo natalizio, che occorre raccogliersi, tracciare bilanci e farsi i conti in vista di un Capodanno che sarà pure fittizio e convenzionale ma è comunque il punto a capo da cui ripartire. Per rinascere, disfarsi o rifare le stesse cose di sempre.

Marcello Veneziani 

Stupendo riflettere su “L’INFINITO” di Giacomo Leopardi.

L’«Infinito» di Giacomo Leopardi
Perché l’Infinito è la poesia più celebre della letteratura italiana? Forse perché è un testo breve e vertiginoso; un testo che, nel breve giro di quindici versi (potremmo dire che è un falso sonetto, che ne ha normalmente 14), condensa, come dichiara Leopardi stesso in una lettera del 1828: «esperimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche» del suo animo. È poi è un testo di cui Leopardi, sin dalla prima pubblicazione a stampa, che avviene in rivista il «Nuovo ricoglitore», nel 1825, riconosce subito l’importanza, tanto da continuare a ristamparlo, nelle successive edizioni del libro dei Canti, fino all’edizione finale che tutti conosciamo, quella pubblicata a Napoli, da Saverio Starita, nel 1835. E l’Infinito, che è il primo di una serie di Idilli e volgarizzamenti di alcuni versi morali dal greco, conserverà sempre una posizione centrale nel libro di poesie, e viene individuato, subito, come un testo cardine nell’equilibrio dei Canti.

Eppure, sappiamo che l’Infinito non era stato scritto nel 1825, ma nel 1819. Ed era rimasto nei cassetti di Giacomo per sei anni, i cassetti di una scrivania molto piccola, situata di fronte alla finestra del palazzo Leopardi di Recanati: è quindi una nascita nascosta, occultata: una specie di figlio segreto, messo a balia e ripreso con sé, sei anni dopo la nascita.

L’«Infinito» era rimasto nei cassetti di Giacomo per sei anni
E subito sorge una domanda. Perché Leopardi non lo pubblica subito? Perché aspetta per ben sei anni? Le ragioni sono tante, ma sicuramente perché era un testo troppo temerario, potremmo dire che era un testo ribelle, sia verso la forma della poesia (non segue nessun schema metrico), sia verso i suoi contenuti. Non è infatti solo una poesia, ma è una meta-poesia, un testo che parla della possibilità di fare poesia, a partire dalla solitudine (un ermo colle) e dall’immaginazione di ciò che non si vede, gli «interminati spazi» che si nascondono dietro una siepe che chiude lo sguardo («il guardo esclude»), e di ciò che non si sente, un flebilissimo «stormire del vento tra le piante», che si può cogliere solo nel silenzio più totale: i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete» che l’immaginazione è in grado di «fingere», cioè formare in sé, e che provoca vertigini: «dove per poco il cor non si spaura». Ed è una poesia che nasce dall’incontro-scontro tra l’infinitesimamente piccolo e lo smisuratamente grande, ciò che la mente è in grado di comprendere in sé, allargandosi fino ai confine dello spazio e del tempo: «l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva e il suo di lei».

Ma torniamo al 1819. Non è un anno qualsiasi, è un annus terribilis, di una crisi esistenziale mai sperimentata prima da Leopardi: in cui si aggrava la malattia agli occhi, si inasprisce lo scontro con il padre Monaldo, fino – nel luglio, appena divenuto maggiorenne – al fallito tentativo di fuga, quando Giacomo, abbandonando Recanati, scrive quella lettera al padre che nessun genitore vorrebbe mai avere letto: «So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche».

Nell’anno della fuga, al padre scrisse: «Ella non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli»
È molto probabile che questi 15 versi siano stati scritti proprio dopo questa lettera, e la fallita fuga; possiamo anche intenderli come una risposta a quella mortificazione dell’immaginazione. Se li guardiamo nella loro veste originaria, nella prima redazione manoscritta che ci è rimasta, che, insieme alle altre carte leopardiane, è depositata presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, che le ha messe in condivisione, nel catalogo della World Digital Library, dove possono essere ammirate da tutti, scopriamo che il testo dell’Infinito è un po’ diverso da quello che abbiamo nella nostra memoria. Il quaderno di cui fa parte, infatti, comprende sei testi, scritti in tre tempi diversi, e a ogni nuovo tempo, Leopardi tornava sui testi precedenti per correggere qualche verso. Possiamo dire, quindi, che nell’Infinito vi sono più infiniti, che è un testo in perenne movimento.

Nell’«Infinito» vi sono più infiniti, è un testo in perenne movimento
Il “clic” dell’Infinito.
Se osserviamo l’autografo, infatti, notiamo che, come tutte le carte leopardiane che ci sono rimaste, è scritto in bella copia. Lo si vede dall’impaginazione, con titoli centrati, i rientri o gli aggetti del primo verso e delle strofe dei testi più lunghi, le correzioni che – cominciamo a familiarizzarci con il modo di correggere di Leopardi – sono di tipo diverso. Alcune poche sono apportate all’atto della scrittura (come l’inciampo dopo «Io mi», che viene corretto in «Io nel pensier mi fingo», un errore di «anticipo», che è una tipica correzione «da copista», di Leopardi copista di sé stesso…), altre invece sono apportate in un momento successivo alla stesura, cioè alla copia della lezione base, come quelle ai versi 3 e 4, dove «celeste confine» («del celeste confine il guardo esclude»), viene corretto in «ultimo orizzonte» e «un infinito spazio» («Ma sedendo e mirando un infinito / spazio») diventa «interminato spazio». Ma come in un mirabile gioco combinatorio, gli ultimi versi, 13-14, scambiano di nuovo le parole dell’infinito: «Così fra questa / immensitade il mio pensier s’annega,» vengono corretti in «Così tra questa infinità (ma prima aveva modernizzato «Infinitade» in «Infinità», lo vediamo corretto in rigo) s’annega il pensier mio», con un passaggio tra la prima variante, i cui si bilanciano lessico più letterario «Immensitade» e sintassi moderna: «il mio pensier s’annega», con la seconda formulazione, più moderna nel lessico: «Infinità», ma più letteraria – Leopardi avrebbe detto «elegante» – nella sintassi: «S’annega il pensier mio». E poi una piccolissima correzione nel passaggio cruciale della poesia, al v. 11: «io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando». Qui Leopardi aveva chiuso la frase con un punto fermo, facendo seguire il momento successivo, quello del clic: «E mi sovvien l’eterno», con una nuova frase, introdotta dalla lettera maiuscola. La correzione invece cambia la sintassi della frase. Cancella il punto fermo e lo trasforma in due punti. Non è solo una correzione formale. Il clic con cui, dallo «stormire del vento fra le piante», la mente porta alla memoria tutto il passato («e le morte stagioni, e la presente e viva e ‘l suon di lei»), è una conseguenza della comparazione (cioè viene dopo i due punti dichiarativi), potremmo dire che è un «legato» musicale, non uno «staccato». Anche da una semplice correzione, da «due punti», si possono trarre interpretazioni, perché questo è lo scopo della filologia, la lettura attenta dei dettagli di questo splendido testo, che, come tutti i classici, come diceva Italo Calvino, «non ha ancor finito di dire quello che ha da dire».

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Un anno da Leone…

 

 

 

Grazie a Dio, l’uomo dell’anno è un testimone dell’Eterno. Si chiama Robert Francis Prevost ma è più riconoscibile con la criniera di Leone XIV, Pontefice venuto dagli Stati Uniti, addirittura da Chicago. Il primo papa statunitense, quasi in contemporanea con Trump alla Casa Bianca. È salito al soglio di Pietro nell’anno che sta finendo ed è la novità più consolante che sia apparsa a Roma e non solo. I messaggi più sensati, quest’anno, li ha mandati lui, non solo sul piano della fede e della cristianità, ma anche del buon senso, della vita sociale e della pace tra i popoli. Non si è contrapposto a nessuno, non ha smentito l’opera di Papa Francesco, suo predecessore, ma con dolcezza e determinazione ne sta correggendo il tiro, riequilibrando le sorti e gli assetti della Chiesa. Sta puntando all’unità della Chiesa e dei cattolici, come purtroppo non fece il suo predecessore che si schierò con il versante progressista penalizzando il versante conservatore e tradizionale, spaccando la chiesa in due tronconi. Leone non vuole capovolgere gli equilibri ma ricucire quella frattura, senza escludere nessuno. E anche nel dialogo interreligioso è partito, come è sacrosanto, dai fratelli separati più vicini, gli ortodossi della chiesa greco-russa, a 1700 anni dal Concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico dei cristiani e soprattutto in vista del bimillenario della morte di Cristo, il 2033, per il quale si prevede un Anno Santo speciale.

Nella Chiesa cattolica ha riammesso la messa in latino, i simboli e la liturgia della tradizione, perché le vie che portano al Signore sono infinite e non si possono ridurre solo a una; possono convivere gli innovatori e i tradizionalisti e trovar posto nella Chiesa, senza emarginare o allontanare gli uni o gli altri. Sul piano politico nessun fedele si sente escluso nel suo pontificato, ma compreso ecumenicamente nell’abbraccio pastorale.

In Palestina ha invocato la pace e la fine dei massacri mentre l’Occidente taceva sulla carneficina quotidiana a Gaza, e invoca la pace e il negoziato in Ucraina mentre l’Europa continua a chiamare alle armi, col proposito sciagurato di estendere e prolungare la guerra, trasformandola in un pericoloso conflitto mondiale tra Europa e Russia. Inoltre, Papa Leone non si è mai distratto sui massacri dei cristiani nel mondo, ne ha denunciato le persecuzioni e le stragi, nel silenzio generale dei mass media.

Sul piano dottrinario, da agostiniano, Papa Leone XIV è ripartito da Sant’Agostino e dai Padri della Chiesa, dalla tradizione più antica, e si avvertono i segni che lascia al suo passaggio. Predica anche lui la misericordia e la carità verso i poveri, come il suo predecessore, ma senza trasformare la vicinanza ai poveri in pauperismo e in sindacalismo clericale. Nell’esortazione apostolica Dilexi te ha sottolineato l’amore di Cristo nei poveri, la condanna della schiavitù, la difesa delle donne e il diritto all’istruzione, senza trasformare il magistero della Chiesa in agenzia di assistenza sociale. Ha espresso amore e premura verso i migranti ma senza ridurre la Chiesa a una Ong per traghettare i migranti di tutto il mondo, a partire dagli islamici.

Coerentemente con la scelta del suo nome pontificale, che richiama Leone XIII, il Papa della dottrina sociale, Leone XIV ha condannato il consumismo e il turbo-capitalismo ma non ha buttato via il bambino con l’acqua sporca: difende la civiltà cristiana, i suoi principi e i suoi riti, la sua storia e la sua dottrina, vuol risvegliare la sua forza morale, evangelica e spirituale, non sposa il terzomondismo. Dialoga con tutti, ma a partire dai cristiani, e non privilegiando i gli atei, scendendo sul loro terreno. E non soffre di protagonismo, è sobrio e discreto (l’unico trauma per me è stato scoprirmi coetaneo del papa, ti fa sentire senex, per dirla in linguaggio ecclesiastico).

Ma alla vigilia di Natale, vorrei porre l’accento sulla sua accorata apologia del presepe. Nel presepe, Leone vede un inno alla nascita, quindi alla maternità e alla famiglia, a cominciare dai bambini, in una linea di continuità tra natalità naturale e natività soprannaturale. Nel presepe ha colto l’apoteosi della comunità che si stringe intorno a Gesù Bambino e alla sua Famiglia; e ha posto l’accento sull’avvento della Luce nel mondo, speranza di salvezza. Da tempo il presepe è osteggiato dai suoi detrattori e stravolto da alcuni cristiani che vogliono trasformarlo in una specie di congresso interrazziale, una specie di Onu dell’antichità, con un messaggio di integrazione e accoglienza che svilisce il significato universale ed evangelico per farlo diventare il solito teatrino dell’inclusione e dei diritti civili. Per la verità anche Bergoglio in una lettera apostolica di qualche anno fa, Admirabile Signum, aveva sottolineato il valore spirituale e religioso del presepe, anche in relazione alla nascita e alla famiglia, oltre che la predilezione francescana verso i poveri di tutto il mondo. Ma alla fine il messaggio prevalente durante il suo pontificato era fondato sulla pervasiva retorica dell’accoglienza e dell’inclusione, oscurando ogni altro significato; mentre fuori dalla Chiesa serpeggia l’ostilità verso il presepe, ritenuto addirittura offensivo verso i non credenti e i fedeli di altre religioni. In realtà, il presepe non è solo il culmine della visione cristiana, la rappresentazione più viva e concreta di un mondo in cammino verso Cristo ma proviene da un fondo rituale e spirituale precristiano: coincide col mito solare del Bambino divino partorito in una grotta da una Madre Vergine. Cito a tale proposito due precedenti: ad Alessandria in Egitto, la notte del 24 dicembre un bambino fasciato che raffigurava Horus, figlio divino di Iside, era portato in processione mentre i sacerdoti annunciavano il parto della Vergine e il Sole tornato a splendere nel cielo. Nella Quarta Egloga, Virgilio annunziava la nascita imminente del puer miracoloso, in un linguaggio criptico che echeggiava i culti orientali. La cristianità non è dunque l’avvento del Nuovo e la rottura con ogni precedente, ma è l’espressione, o per i suoi credenti il culmine, di una tradizione nel segno della luce, dell’inizio e della nascita che viene da più lontano. Basterebbe, del resto, vedere il presepe napoletano, fiorito in epoca barocca, per rendersi conto del sostrato pagano che riaffiora nella cristianità, nei suoi culti e nei suoi santi; si legga a tale proposito “Il presepe popolare napoletano” di Roberto de Simone (ed. Einaudi).

Papa Leone XIV sta riportando il presepe a casa, e si rivolge al mondo non mettendo tra parentesi la fede e la religione per inseguire coloro che non saranno mai cristiani ma lo fa nel nome dalla fede e dalla cristianità e a partire da esse. L’impresa è difficile, assai impervia, ma qualunque sia l’esito potrà dire con San Paolo: bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Ho combattuto la buona battaglia, ho consumato il mio cammino, ho conservato la fede.

 

Marcello  Veneziani

Bilancio disincantato di fine anno.

 

 

Da quando è al governo la destra non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di cittadini, di contribuenti e anche in quella di “intellettuali”, di “patrioti” e di uomini “di destra”. Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare. E perdura anche il clima di intolleranza e censura verso le idee che non rientrano nel mainstream. Non saprei indicare qualcosa di rilevante che segni una svolta o che dica, nel bene o nel male, al paese: da qui è passata la destra – sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice o che volete voi- e ha lasciato un segno inconfondibile del suo governo. Lo diciamo senza alcun piacere di dirlo, anzi avremmo più volentieri taciuto, occupandoci d’altro; lo scriviamo solo per non sottrarci, almeno a fine anno, a tentare un bilancio onesto, realistico e ragionato della situazione.

Le campagne propagandistiche filogovernative e antigovernative raccontano trionfi e catastrofi che non ci sono, sceneggiano paradisi o inferni inverosimili: prevale il purgatorio della routine, dove ciò che va in scena è apparenza, mossa, replica, gioco delle parti e simulazione di cambiamento. Mediocritas, plumbea o aurea, senza tracolli. Nulla di significativo e di sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno, negli assetti del paese, nella politica estera ma anche sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo; tutto è rimasto come prima, salvo le naturali, fisiologiche evoluzioni e involuzioni. E in Rai? Ancora Vespa, Benigni e Sanremo, per dirla in breve. Niente di nuovo, da nessuna parte.

Solo vaghi annunci, tanta fuffa, piccole affermazioni simboliche, del tipo “l’oro è del popolo italiano”, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia. Le uniche vere novità provengono dall’intelligenza artificiale, non dalle intelligenze politiche. Non è emerso alcun astro nascente, nessuna nuova promessa in ambito politico, mediatico, culturale o nella pubblica amministrazione. C’è lei, solo lei, il resto è contorno e comparse.

Chi assegna ancora qualche valore alle appartenenze politiche deve abituarsi a considerarle esattamente come le passioni sportive: puoi tifare per una squadra come per un partito, per un tennista come per un leader, ma sai che se vince o se perde non cambia nulla nella realtà, nella tua vita e in quella pubblica.

Non siamo delusi da questa assenza di svolta perché non ci eravamo mai illusi; sin da prima delle elezioni e poi quando s’insediò al governo la Meloni avvertimmo che non sarebbe cambiato nulla di sostanziale, nessuna svolta a destra era all’orizzonte né avrebbe mai potuto esserci; per andare al governo e per restarvi, la Meloni avrebbe seguito alcune linee obbligate e rinunciato ad altre battaglie politiche annunciate quando era all’opposizione, magari lasciandole balenare ancora solo nei comizi. Insomma avrebbe seguito e rispettato gli assetti interni e internazionali e le direttive, si sarebbe attenuta alla linea Draghi, e nei comportamenti avrebbe adottato uno stile mimetico di tipo democristiano. Così è stato. Per mantenere il consenso ha giocato di rimessa, puntando sugli errori e le intolleranze della sinistra che creano ondate di rigetto e di solidarietà con chi ne è vittima. Del resto non c’era nemmeno una classe dirigente adeguata alla sfida e in grado di poter cambiare veramente il corso delle cose. Ma anche chi oggi la contesta dall’opposizione non avrebbe fatto diversamente se fosse stato al governo, si sarebbe attenuto alle direttive dominanti, avrebbe seguito le stesse linee di fondo.

La Meloni ha governato con abilità, astuzia, prudenza e con una mimica verace e una verve passionale che suscitano simpatia. Si è affermata a livello interno e internazionale, aiutata dall’assenza di competitori adeguati all’opposizione e di alleati che potessero insidiare la sua leadership, e favorita all’esterno dal vuoto di leader europei, con capi di governo meno forti e meno popolari di lei. L’unica vera novità politica deriva da un riflesso d’oltreoceano: l’elezione di Donald Trump nel bene e nel male ha ridisegnato il campo e gli scenari. A livello internazionale, quell’elezione ha aumentato il peso della Meloni, come sponda europea dell’Atlantico, e lei si è barcamenata a livello internazionale tra le due linee. Ma il peso dell’Italia resta relativo e permane la doppia dipendenza euroatlantica. Il margine di autonomia è tutto nel sapersi destreggiare tra le due sponde. Una sola raccomandazione: si tenga almeno lontana dallo scellerato eurobellicismo.

Per la Meloni è una situazione favorevole che non ha precedenti, che le garantisce la navigazione fino a conclusione della legislatura, durata e stabilità, salvo inciampi e imboscate; prima di lei i cicli politici non sono durati più di tre anni (Renzi, Conte, Draghi più altre più brevi meteore). La Meloni, pur con qualche logoramento di fiducia, che si inquadra nel più generale scollamento tra la politica e la gente, sembra destinata a durare, almeno fino alla fine del suo mandato. Mezza Italia non va a votare ma in quell’altra metà la Meloni con la sua coalizione riesce a prevalere. Tre quarti del popolo italiano, dice il Censis, non crede più alla politica. È nato un nuovo populismo antipolitico. È questo l’ultimo stadio del populismo, quello di chi diffida ormai della politica e se ne tiene alla larga. Ma questo malumore generale vive nella sua dimensione privata e individuale, senza sbocchi politici. La politica tramonta, come è tramontata la religione, e pure l’amor patrio e ogni altra appartenenza significativa; il nuovo populismo antipolitico si fa virale ma molecolare, miscredente e autoreferenziale. Tutti lasciano la piazza, ognuno se ne va per conto suo.

Non crediamo, come taluni sostengono, che la Meloni, appena varcata la soglia dei 50 anni, età minima per candidarsi, abbia in mente di puntare al Quirinale dopo il lungo regno di Mattarella; sarebbe un salto prematuro, quasi un prepensionamento precoce, che avrebbe senso solo con una riforma presidenzialista: ma non è alle viste, mentre l’ipotesi di rafforzare il premierato è concreta, trova consensi trasversali e conferma che il progetto meloniano sia quello di restare ancora a Palazzo Chigi, con maggiori poteri. Peraltro non è mai accaduto che un vero leader politico in Italia sia diventato Capo dello Stato: nessuno nella decina di leader e premier forti che abbiamo avuto nella nostra storia repubblicana è mai diventato presidente della repubblica.

Con questa analisi disincantata sappiamo di scontentare sia i lettori che sostengono con entusiasmo o quantomeno con fedeltà di schieramento la Meloni e il suo governo; sia quanti, viceversa, trovano troppo indulgenti e benevoli i nostri giudizi sul governo Meloni che ai loro occhi avrebbe invece tradito gli italiani e le sue promesse. Questo dissenso bilaterale tra i lettori ci spinge ancor più a parlare sempre meno di politica e di governo; ma riteniamo che sia nostro primo dovere, una tantum, dire ciò che ai nostri occhi ci sembra essere la verità della situazione. Possiamo sbagliarci, naturalmente, ma ci rifiutiamo di fingere e di ingannare. Se poi ad altri fa piacere credere alle fiabe, fatti loro.

 

 Marcello Veneziani

Crepet: “I genitori comprano tutto ai figli e annullano il desiderio”. La denuncia dello psichiatra contro l’educazione iperprotettiva moderna

Lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet ha partecipato alla trasmissione Lo Specchio, condotta da Damiano Realini, in onda sulla RSI, la televisione di Stato della Svizzera. L’intervista ha toccato diversi aspetti della vita dello psichiatra, dalla sua formazione al rapporto con Franco Basaglia. La parte centrale del dialogo si è concentrata sul tema dell’educazione e sul rapporto tra genitori e figli nella società contemporanea.  Crepet ha utilizzato la metafora della canzone “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin per denunciare l’atteggiamento delle famiglie moderne. Lo psichiatra ha spiegato che i Led Zeppelin, con questa canzone, prendevano in giro “quella signora che pensava” di poter comprare la scala per il paradiso.  La metafora musicale ha permesso a Crepet di illustrare il grande errore educativo contemporaneo: “I problemi sono arrivati con l’agio, quando noi compriamo tutto ai nostri figli e pensiamo di poterla comprare davanti a uno scaffale dove tutto è un po’ confezionato”.

L’agitazione dei bambini come espressione del desiderio
Lo psichiatra ha affrontato il tema del desiderio infantile come elemento fondamentale per la crescita. Crepet ha dichiarato durante l’intervista che l’agitazione nei bambini, spesso fonte di preoccupazione per i genitori, rappresenta in realtà un segnale positivo. Lo psichiatra ha spiegato che “il desiderio è anche fisico spaziale” e che quindi “i bambini dovrebbero essere sempre agitati, compresi quelli che sono agitati da soli a quelli che magari cercano l’agitazione in un angolo un po’ oscuro della casa”. Crepet ha raccontato un episodio della sua infanzia per chiarire questo concetto: da bambino giocava a una cosa che si era inventato chiamata “il mio piccolo impero”, un mondo assolutamente irreale di cui evidentemente aveva bisogno.

Lo psichiatra ha collegato questo ricordo al verso dei Led Zeppelin “Highway to Heaven”, sottolineando che il bisogno di movimento rappresenta la spinta verso l’alto. La teoria di Crepet sul desiderio trova conferma anche in altre sue dichiarazioni recenti. Lo psichiatra ha affermato che “la creatività si innesca dal desiderio, ovvero da ciò che si vorrebbe e ancora non c’è”.

Nel libro “Lezioni di sogni”, pubblicato da Mondadori nel 2022, Crepet ha scritto che “i bambini ci guardano e imparano da noi bellezze e viltà”, affrontando quella che Papa Francesco ha definito “una catastrofe educativa”.

La paternità e il rischio della perfezione  .Lo psichiatra ha espresso durante l’intervista una forte preoccupazione per la deriva verso la perfezione che caratterizza la società attuale. Crepet ha dichiarato che questa ricerca dell’uomo perfetto rappresenta “una cosa che a me fa molta inquietudine, in senso negativo”.
Lo psichiatra ha denunciato l’esistenza di aziende multimiliardarie che vogliono feti perfetti e di kit di intelligenza artificiale che possono lavorare sul genoma umano. La riflessione di Crepet si è fatta ancora più provocatoria quando ha posto questa domanda: “Noi ci fermiamo? E se io volessi avere un sacco di bambini cosiddetti intelligenti e se come è vero c’è qualcuno che pensa ci vorrebbe che i cittadini del mondo avessero come minimo tre numeri del quotiente intellettivo?”. Lo psichiatra ha avvertito che “la perfezione è il prodotto del mercato che non contempla delle differenze che vengono invece dall’artigianato, dalla manualità”.

Sul tema della paternità, Crepet ha mostrato una sincerità disarmante quando il conduttore gli ha chiesto se riesca a dimenticare di essere psichiatra e sociologo nella relazione con sua figlia Maddalena. Lo psichiatra ha risposto: “Questo è un argomento di cui ne devono parlare. Magari l’errore di un padre è anche fertile. Quelli innumerevoli, non ho il minimo dubbio”. Crepet ha concluso affermando che “bisogna vivere una vita per parlare del padre” e ha augurato a sua figlia “di vivere una lunga vita per poi parlare di me”.

Andrea Carlino__Orizzontescuola.it

 

Una vita in punta di naso…

 

“Almeno, annusalo”.

Mi ha detto qualche tempo fa una persona invitandomi a leggere il suo libro. Annusalo, ha insistito quando ho risposto che ho troppi impegni (e troppe cose da leggere) per potermi dedicare a libere esplorazioni letterarie. Me lo ha scritto in un messaggino e, dopo averlo letto e riposto il telefono, camminando ho cominciato a riflettere su quell’esortazione. Con “Annusalo”, evidentemente intendeva dire “Non serve che tu lo legga attentamente fino all’ultima pagina, che tu assorba il libro nei suoi angoli emotivi più nascosti e che gli dedichi chissà quanto tempo”. Basta un’annusata, una lettura veloce e trasversale, magari limitandoti a una ventina di pagine, «giusto per sentire com’è». Già, ma basta un’annusata per «sentire com’è un libro»?

Naturalmente no.

La lettura, proprio perché attività squisitamente culturale e quindi non naturale, è qualcosa che si impara con fatica e si dimentica presto. Con buona pace degli slogan più intellettual-chic (Leggere è bellissimo, Senza libri sto male). Le annusate canine e la lettura non hanno nulla in comune se non un invito lezioso a sfogliare qualche pagina e magari ricavarne un tuìt o un post. Eppure, se riflettiamo, quante cose annusiamo ogni giorno?

Annusiamo le notizie (qualche titolo e qualche articolo, un pezzetto di podcast, un link, uno sguardo al tg); annusiamo le persone attraverso le chat (c’è un’ombra nella sua giornata? Che cosa vorrà dire quel “buongiorno” senza faccina? E perché visualizza ma non risponde?); annusiamo naturalmente libri, canzoni, film: quasi impossibile vedere o ascoltare tutto fino in fondo, viviamo di panoramiche culturali che, come appare comprensibile, ci lasciano un senso di insoddisfazione, di appetito non saziato, magari spingendoci a comprare un altro libro, o a noleggiare un altro film.

Annusiamo i sentimenti di chi ci sta vicino, voliamo sopra piccole e grandi tragedie, di un amore ci basta il profumo, di un dolore ci limitiamo all’olezzo. Poco più di vent’anni fa, Bollati Boringhieri pubblicò in Italia un libro piccolo ma importante, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, del collettivo italo-francese Tiqqun. La Jeune-Fille è la metafora per raccontare un mondo completamente plasmato dallo spettacolo e neutralizzato dal consumo. La Jeune-Fille non vive ma annusa, non legge ma sfoglia, non ama ma manda whatsapp.
Ecco perché, in fondo, quell’Annusalo non aveva niente di sbagliato, anzi. È il sintomo di una vita in punta di naso.

 Roberta Scorranese

  Illustrazione, Luisa Tosetto

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Benvenuti a Scemolandia.

 

L’idiota globale ha colpito ancora, con la sua stupidità militante e intollerante. È una storia che merita di essere raccontata proprio perché nasce e ruota intorno a un fatto insignificante che meritava di non essere nemmeno accennato. È successo in Thailandia, anzi in Finlandia, in realtà è accaduto nel non-luogo globale dei social e poi si è ripercorso nel mondo, da Oriente a Occidente. L’ho appreso da Paolo Valentino del Corriere della sera. State a sentire.

La protagonista è Miss Finlandia, una ragazza di ventidue anni dal cognome impervio, Sarah Dzafce, incoronata lo scorso settembre regina di bellezza finlandese e nei giorni scorsi detronizzata, privata del titolo ed espulsa da Miss Universo, che si stava svolgendo in Thailandia.

Che avrà fatto mai, per ritirarle addirittura la patente di Miss Finlandia e cacciarla da Miss Universo? Avrà commesso crimini contro l’umanità, avrà stuprato e ucciso qualcuno o avranno perlomeno dimostrato la sua corruzione, abuso di minori, insomma qualcosa di grave, direte voi. Peggio, signori, peggio. La ragazza mentre era in Thailandia per il concorso ha postato sui social una foto nella quale si tirava gli occhi con le dita, mimando gli occhi a mandorla degli orientali. Ma vi rendete conto che cosa tremenda, che gesto ripugnante e razzista? E non contenta, ha scritto pure una didascalia di chiaro stampo razzista: Mangiare con un cinese. Apriti cielo. L’Asia intera è insorta per l’insolente gesto di disprezzo e di irrisione: cinesi, giapponesi e coreani per la prima volta uniti, come non succede mai in politica estera, hanno protestato compatti e sdegnati per l’atto violento e razzista della ragazza, forte della sua bellezza da miss e della sua presunta superiorità razziale nordico-europea. Ma l’idiota, dicevamo, è globale e anche virale, innesca una serie di reazioni a catena: la compagnia aerea che batte bandiera finlandese, la Finnair, si è dissociata dal folle gesto della ragazza (la prossima volta torni a piedi in Finlandia) e l’organizzazione del concorso di Miss ha spodestato la Dzafce dal suo trono di reginetta, chiamando al titolo la prima delle non elette, e promettendo al mondo intero, rimasto scioccato dal gesto razzista della ragazza, che d’ora in poi si procederà più seriamente all’educazione preventiva delle candidate miss. Educazione seria, magari come si faceva ai tempi della rivoluzione culturale maoista, quella che costò qualche decina di milioni di morti al popolo cinese. Ma la storia, come dice Marx, si ripete la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

Peraltro, l’infame ragazza razzista che ha compiuto l’insano gesto, a sua volta è impura, perché ha origini kosovare, dunque non è nemmeno una finnica o ugro-finnica doc, ma discende da una famiglia di immigrati dal sud.

Ma a conferma che l’idiota globale è davvero universale e trasversale, c’è stato uno strascico ulteriore e istituzionale all’incresciosa vicenda che ha fatto inorridire il mondo. Il premier conservatore finlandese, Petteri Orpo, ha condannato il gesto della maledetta xenofoba, come “scriteriato e stupido”, suscitando a sua volta la reazione dell’estrema destra finnica, che appoggia il suo governo, che ha invece solidarizzato con l’ex-Miss, postando foto che ripetevano l’insano e folle gesto degli occhi a mandorla mimati e addirittura facendo il verso alle campagne per le vittime del terrorismo: Je suis Sarah. Riapriti cielo: interviene pure la sinistra, che si era sentita stranamente esclusa da questo festival della stupidità woke, di cui di solito è protagonista assoluta, e alti esponenti del Partito socialista hanno denunciato la campagna di odio dell’estrema destra coi loro offensivi occhi a mandorla, in segno di disprezzo somatico e razzista. Non contento di tutto questo polverone, il presidente del consiglio di Helsinki, il sullodato Orpo, se l’è presa coi suoi alleati giudicando le loro manifestazioni “dannose per la patria”. Alto tradimento, insomma. Un dramma a catena, che da noi si sarebbe chiamata sceneggiata napoletana o meglio scemeggiata, scaturito da un gesto infimo e infantile, di quelli che si fanno da quando esiste il mondo.

Piccolo dubbio incidentale: ma se la sciagurata anziché prendere in giro gli occhi a mandorla avesse preso in giro, che so, la faccia dei russi o la loro cadenza, mimandola in un post, sarebbe stata accusata lo stesso di crimini contro l’umanità oppure no, sarebbe diventata una specie di icona dell’Unione europea e di eroina contro il Male putiniano?

E noi qui a preoccuparci che l’Intelligenza Artificiale avanza e sta prendendo il posto dell’Intelligenza Umana. Non preoccupatevi, il posto è vacante da un pezzo. Di che vi preoccupate, se la stupidità ideologica ha già ampiamente espiantato il cervello e neutralizzato l’Intelligenza umana e domina incontrastata nei consessi globali?

Torno alla realtà e mi chiedo quante volte noi, non solo da bambini, abbiamo fatto il gesto di mimare gli occhi a mandorla o le maniere orientali, quante volte abbiamo scherzato sulla varietà del mondo e dell’umanità. Gesti semplici, innocui, al di sotto dell’intelligenza e della stupidità, semplicemente giocosi e fatuamente innocenti. Ma perché fare gli occhi a mandorla sarebbe un crimine contro l’umanità o un atto di razzismo? Qual è la carica dispregiativa in un gesto del genere?

Alla fine di questo articolo dedicato all’Idiota globale avrei voluto dirvi che era tutto uno scherzo, ce lo siamo inventati di sana pianta, era solo una caricatura del mondo woke, una goliardata. Invece no, è tutto vero. Pensate a che punto è arrivata la demenza planetaria da superare perfino una sua possibile caricatura. Il mondo sarà seppellito non da una bomba atomica o da un disastro astrale o ambientale, ma da un’epidemia di stupidità che ci farà perdere la realtà, l’intelligenza e il buon senso. Non ci sarà bisogno dell’Apocalissi o dell’Angelo sterminatore, basterà un battito d’ali dell’imbecillità e il mondo imploderà, tra le risate degli dei.

Marcello Veneziani

Galimberti : “L’amore è una guerra, linfa alla base di ogni rapporto e di ogni passione, ha bisogno di essere alimentato e attenzionato”

 

Galimberti spiega perché l’amore non è mai una conquista definitiva e cosa rischiamo di perdere quando lo consideriamo una certezza invece che un impegno quotidiano…Siamo da sempre illusi dall’idea che l’amore, una volta trovato, duri per sempre oppure che ci porti sempre i suoi frutti senza impegno, senza stimoli e senza dedizione. L’amore inteso come linfa alla base di ogni rapporto e di ogni passione, ha bisogno di essere alimentato e attenzionato.  A tal proposito con parole profonde interviene Umberto Galimberti, filosofo e saggista italiano, che afferma: “ L’amore è guerra. È una guerra in cui io vinco se vinco tutti gli avversari, perché io posso avere anche una centrale atomica, ma se le mie guardie dormono, allora il mio potenziale atomico può essere distrutto anche da chi arriva con i bastoni semplicemente”. L’esperto vuole porre la nostra attenzione su un aspetto importante della vita, che è quello di non dare per scontato che una persona possa essere “nostra”, che ci spetta di diritto solo perché inizialmente siamo stati intraprendenti, vivi e presenti .

L’amore non solo come sentimento tra due persone, ma anche quello che possiamo rivolgere alla nostra passione più grande, allo studio e per i più fortunati anche al lavoro, ha bisogno di costanza. Ha bisogno di presenza che va al di là di quella fisica, ha bisogno di presenza emotiva e di empatia.
Continua Galimberti: “Allora se noi ci mettiamo in mente che l’amore non è una cosa tranquilla, non è una quiete. Non è una sorta di prospettiva, di garanzia per il futuro, non è neppure una passione” possiamo iniziare a maturare la consapevolezza che occorre lavorare sull’amore. Occorre avere un progetto, occorre anche organizzare questo lavoro. Altrimenti stiamo “solo facendo una cosa” che non ha la nostra autenticità, il nostro sentire.
Generalmente tutto questo ha una durata breve oltre a non garantirci la nostra unica e assoluta presenza, perché facilmente sostituibili da chi mette in campo un impegno diverso dal nostro. Allora, per garantirci la serenità di aver fatto del nostro meglio, per aver messo in atto il massimo delle nostre possibilità e per garantirci una costanza e una durata stabile, nelle passioni così come nelle relazioni, dobbiamo aver ben chiaro che: “L’amore è una guerra. L’amore ha la stessa struttura della verità e deve vincere tutte le sue negazioni. E allora – ponendo l’attenzione sulla relazione amorosa – se io sono in grado di affascinarti al di là di tutti i tuoi possibili fascini, posso dire che “ti amo” e “sei davvero connessa all’amore con me”.
Queste parole racchiudono il più profondo significato dell’amore, quello che non mettiamo solo in atto con un altro individuo, ma quello che dobbiamo rivolgere a tutti gli ambiti per tenere sempre viva la nostra vita. L’amore si combatte ogni giorno nei dettagli più semplici: nel restare presenti quando sarebbe più facile distrarsi, nel scegliere di ascoltare invece di dare per scontato, nel coltivare una relazione o una passione anche quando l’entusiasmo iniziale si affievolisce. È lì che si decide se l’amore resta vivo o si spegne, perché, come ogni guerra silenziosa, non si perde in un colpo solo, ma per mancanza di attenzione.

Dal blog___Ascuolaoggi

L’imam da un lato. Tutto il resto dall’altro.

Dal presepe al prosciutto, dal Natale ai capelli al vento delle donne. Invece del termine islamogoscista meglio usarne uno più preciso: collaborazionista

Meloni sull’antisemitismo: “Nessuna reticenza. Grati al gesto eroico di Ahmed al-Ahmad a Sydney”
Non ti piace il presepe? Non ti piace il prosciutto? Non ti piace il prosecco? Di sicuro ti piace l’imam. Non ti piace il Natale? Preferisci l’attentato mortale che piace all’imam? Non ti piace la quaresima, prediligi il ramadam se ti piace l’imam. Non ti piacciono i capelli al vento delle donne? Visto che ti piace la barba dell’imam… Non ti piace la Venere Callipigia? Meglio le terga dell’imam? Non ti piacciono i bikini? Vuoi mettere la palandrana dell’imam?
Non ti piacciono i Muse e i Maneskin? Nemmeno a me, solo che a te piacciono i muezzin. Non ti piace Israele, ovvio: meglio l’Iran e l’imam (anche se egiziano). Non ti piacciono trentamila ebrei, troppi Abram, ti entusiasmano tre milioni di maomettani e i loro imam. Io non ti chiamerò, con una parola che comincia a circolare, islamogoscista, ti chiamerò con una vecchia parola, più precisa e severa: collaborazionista.
Camillo Langone__da___IL FOGLIO

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