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Esistono persone al mondo, poche per fortuna, che credono di poter barattare una intera Via Crucis con una semplice stretta di mano, o una visita ad un museo, e che si approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi, e miliardi di parole d'amore...
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La Fuga
Post n°449 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da delilah79
Signore, mi scusi, io vorrei scendere. Sì, sì, lo so che non è il capolinea, ma io non riesco più a proseguire nel viaggio ed in tutta onestà, non ricordo nemmeno più quanto lontano sia l’arrivo. In questa carrozza l’aria è consumata, mi brucia la gola, temo che presto non respirerò più. Dal mio finestrino entrano spifferi freddi di solitudine e poi, scorgo le ruote… ci permettono di procedere, è vero, ma ci fanno anche sbandare pericolosamente. I raggi, i raggi stanno cedendo. Percepisco chiara ogni pietra, ogni buca, ciascun dosso e sono colpi bassi nella schiena. Non posso stare sempre all’erta. Se ne è accorto anche lei, lo vedo, e come me ne soffre, forse siamo gli unici qui in mezzo, consapevoli, intendo. E lo so, lo so che non è colpa sua. La colpa è mia, me la prendo per intero. Sapevo tutto già in partenza, ma ho voluto illudermi di sbagliare, che sarebbe stato diverso, che magari, distraendomi con dei racconti scambiati con gli altri viaggiatori, il tempo sarebbe volato, per una volta volato dove volevo. Ma, lo nota anche lei, qui c’è solo zavorra umana! Questa gente è trasparente e sebbene io cerchi un contatto con costoro, le risposte sono perlopiù insoddisfacenti. Come dice? Dietro, sulla destra? Ah, sì, quell’anziano e quel giovane più avanti. Sembrano diversi, ha ragione e, mi creda, prima di demordere e venire da lei, ho avvicinato anche loro. Eppure, l’apparente similitudine del nostro linguaggio si è persa quando ho cercato la limpidezza del loro sguardo. Signore, mi avvicino a lei sconfitta e chiedo di interrompere questo moto sterile perché, scendendo, forse tornerò padrona del mio passo, lo riconoscerò, lo rispetterò per ciò che è, che sono. La campagna è gelata, lo vedo, e la pioggia cade giù fitta ad impedire la visuale, ma qui dentro ho freddo all’anima! Camminando, invece, potrò riscaldarmi ad ogni passo e se il gelo spaccherà la pelle, almeno potrò succhiare il sangue che sgorga da ferite vive, piuttosto che lasciare la mia carne in pasto ai morsi esangui della delusione. La prego, Signore, non insista nel volermi trattenere. Lei è l’unico a comprendere la mia costrizione ed il solo che riconosce la vita che pulsa nelle mie vene, la stessa cui non riesco a rinunciare. Rallenta? La ringrazio, Signore. Scenderò in fretta, ho pochi bagagli e farò in modo che nessuno si lamenti con lei per questa fermata inaspettata. Non abbia timori per me, saprò cavarmela, però, come ultima cortesia, mi conceda un abbraccio. Lo so, non mi conosce, ma, così non è, oramai. Mi conceda, le dicevo, un abbraccio. Non più di pochi istanti che diano esilio ai miei pensieri e che mi facciano credere che, almeno lei, uomo senza nome, in questi attimi ha abbracciato me e me sola. "Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama desiderio." da Elogio della fuga Henri Laborit |
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