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Il lavoro di Angelo

Post n°16 pubblicato il 27 Agosto 2009 da max_6_66
 
Tag: Angelo
Foto di max_6_66

Tornato da una vacanza di quindici giorni, con una settimana ancora di ferie, deciso a fare tutte quelle cose che durante l’anno non si fanno e si rimandano a questo momento, mi sono invece fatto prendere dalla pigrizia. Vagando tra una stanza all’altra riesco comunque a trascorrere la giornata facendo qualche piccola faccenda domestica. E’ la notte che soffro maggiormente il caldo di questi giorni. Dopo due notti passate insonni avevo deciso che la notte successiva sarei andato a far visita al mio amico Angelo.

Il ragazzo pulisce con un panno per l’ennesima volta la sua chitarra prima di riporla nella custodia. Si tratta di una chitarra acustica nera e lucida dove anche la minima impronta, il minimo granello di polvere, si vedono. E in quella casa di polvere ce n’è molta. Polvere che arriva da fuori, durante tutto il giorno, portata dal vento. Ha appena finito di cenare, anzi di sbocconcellare qualcosa. Si guarda allo specchio, si aggiusta con le mani i lunghi capelli biondi, controlla la maglietta, i jeans. E’ tutto OK.

Angelo ha una Land Rover Defender a passo lungo del 1985, di quelle con i due sedili davanti e le panchette laterali dietro. Ci si sta seduti comodi in sei, due davanti (ma occasionalmente anche in tre) e quattro dietro, due per ogni panchetta, seduti di fronte gli uni agli altri. Arrivo intorno alle quattro di mattina. Non mi sono alzato presto, ma siccome non riesco a dormire con il caldo di queste notti, ho fatto le ore piccole a leggere un libro, poi ho scritto qualcosa e l’ora è arrivata. L’aria e piacevole e Angelo sta facendo i suoi preparativi nel capannone dove tiene il suo Defender. Sta controllando qualcosa nel motore, poi fa il pieno di gasolio pompandolo a mano da un bidone li vicino. Mi vede arrivare, mi saluta con un sorriso e continua i suoi controlli.

Il ragazzo cerca di rimanere seduto in poltrona. Mancano ancora molte ore all’alba. Ripensa che la strada da percorrere a piedi non è poca così come poco importa se arriverà in anticipo. D’altra parte non riesce a stare seduto, in casa, sulla poltrona. Si alza, prende la custodia della sua chitarra, apre la porta di casa ed esce. E’ sufficiente il rumore dei suoi stivali sulla strada, il ritmo del suo passo, i dei sassolini schiacciati dalla suola di cuoio, per accendere la musica in lui. Erano molti mesi che non sentiva tutta questa elettricità dentro di se. Ed è per questo che sta facendo questa cosa. Un musicista che non riesce a far uscire la musica dl suo strumento soffre maggiormente di chi non ha mai fatto musica. Lui infatti quel sapore dolce in bocca l’ha sentito, lo conosce bene. E qualunque sia il prezzo da pagare, ha deciso di farlo, perché quel sapore gli manca.

Adesso Angelo sta prendendo a calci le gomme e mi spiega che è importante verificarne sempre la consistenza. Io gli rispondo  che la mia non c’è bisogno di verificarla. Sono le prime parole che ci diciamo. Una risata. Apre una porticina che da dentro casa sua e mi invita a seguirlo. Oramai ha capito che gli sto gironzolando intorno perché questa notte voglio andare con lui, quindi tanto vale che mi renda utile. Usciamo da casa sua con alcune borracce di acqua, due panini al prosciutto, due lattine di birra ghiacciata e la valigetta del pronto soccorso. Osserva il mio abbigliamento e dopo un veloce “beh…..si, può andare” saliamo sulla jeep.

Non dovrebbe mancare molto, sono più di due ore che cammina nel buio. Non ha torto, la quantità di sabbia sulla strada inizia ad aumentare, poi, dietro un grande masso, i suoi lunghi capelli biondi si illuminano. E’ il riflesso della luna sulla sabbia del deserto. Rimane alcuni minuti ad osservarlo, sorridente, prima di incamminarsi per gli ultimi cinquanta metri dentro quel mare di polvere, fino al bordo della strada sassosa che lo costeggia. Si siede a gambe incrociate. L’elettricità e il miele iniziano a penetrare lentamente nel suo cuore. Ma non è ancora tempo, bisogna aspettare.

Dopo quasi un’ora arriviamo nel punto di inizio, Angelo si ferma e mette il freno a mano al suo Defender. Si intravede un primo chiarore, ma è ancora presto per l’alba. Prendiamo la colazione ed usciamo. Appoggiamo le birre sul cofano ed iniziamo ad addentare i panini. Abbiamo quasi un’ora di tempo, ma lo trascorriamo senza dirci una parola, sempre con lo sguardo verso l’orizzonte, distogliendolo solo per cercare la lattina di birra dietro di noi. Dietro una montagna appare una piccola luce, come se lassù qualcuno avesse acceso un fiammifero, anzi, un faro, sta aumentando. Angelo si gira verso di me e fa un cenno di assenso con il capo.

Bisogna aspettare, bisogna aspettare, continuava a ripeterselo. Mentre il flusso di miele dentro di lui aumentava, sentiva le dita che iniziavano a muoversi da sole. Voleva arrivare ancora più su, voleva accumularne ancora, ma sentiva che non avrebbe resistito a lungo perché il suo volto stava rigandosi di lacrime di gioia. Fu a quel punto che estrasse la chitarra dalla custodia e iniziò a suonare, senza plettro, con le dita, dolcemente, con gli occhi chiusi, perdendo sempre di più coscienza di quello che faceva e succedeva, fino a sentire solo il calore e la luce che lo avvolgevano e innalzavano la temperatura del suo corpo.

Il biondo lo abbiamo trovato per ultimo. Il chitarrista. Appena in tempo. Era quasi mezzogiorno ed era allo stremo delle forze. C’era stato bisogno che Angelo scendesse per aiutarlo a salire sulla jeep. Lo aveva fatto mettere a sedere sulla panca accanto al giapponese con il flautino di canna. Davanti a loro il violinista, che siccome lo avevamo raccolto per primo e sapeva già il funzionamento della cosa e si era occupato di farlo bere, lentamente, a piccoli sorsi, da una delle borracce. Il quarto, seduto vicino al violinista, era un poeta. Lo avevamo raccolto poco prima, quindi osservava ancora un po’ rincoglionito i suoi numerosi fogli di carta pieni di parole. Durante il viaggio nessuno dei quattro parlava. Rimanevano tutti con lo sguardo a terra, come provando un po’ di vergogna. Al termine della strada sassosa che costeggiava il deserto, che avevamo percorso per intero dalle prime luci dell’alba fino all’ora di pranzo, c’ era una specie di capanna. Ci siamo entrati per mangiare con dei cucchiai di legno una zuppa di fagioli servita in scodelle di terracotta. Anche per il pranzo nessuna parola e nessuno sguardo alzato. Li abbiamo fatti scendere poco più tardi nella piazza del paese.

Siamo tornati a casa di Angelo. Parcheggiamo la jeep nel capannone, oramai è il primo pomeriggio. Rimaniamo seduti un attimo, immobili, guardando avanti, quando mi viene in mente una domanda. "Angelo, ma ti chiami veramente così….?" Mi risponde senza voltarsi verso di me "Non lo so, ma fino dalla prima  volta che mi hanno chiamato così, mi sono sempre girato" Non avevo dubbi. Sono sceso  e mi sono incamminato verso casa fischiettando e con le mani in tasca.

 
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