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La tavola rotonda (Siem Reap – Cambodia)

Post n°235 pubblicato il 01 Settembre 2010 da max_6_66
Foto di max_6_66

E in quel momento iniziò a piovere. Non è una cosa semplice da spiegare la pioggia che cade da quelle parti, improvvisa e fortissima. Talmente improvvisa e forte che ci vuole un po' prima di capire che è iniziato a piovere, visto che il primo pensiero è che qualcuno da una finestra ti abbia rovesciato addosso una secchiata d'acqua. Non si tratta di gocce di pioggia, ma di getti continui che cadono dal cielo, come se in un istante si aprissero contemporaneamente diecimila rubinetti sopra di te. Una muraglia d'acqua che ti investe, che fa male come se ti prendessero a nocchini in testa, che non ti permette di vedere oltre un metro di distanza. Anche se in quel momento non la vedevo più, ricordavo pochi istanti prima di aver notato la porta di un bar a pochi metri da me, quindi mi era venuto un naturale istinto di procedere alla cieca in avanti. Attraversare quella porta era come la sensazione di passare attraverso una cascata, come quelle dei film di avventura, dietro le quali si cela una grotta segreta. Una volta entrato, voltandomi, vedevo spuntare da quel muro d’acqua, uno alla volta,  i miei compagni di viaggio.

Era proprio un bar. Un bancone di legno con alcuni sgabelli davanti, un grande tavolo centrale. Due donne avanti con l’età ma vestite come due quindicenni e truccate pesantemente si erano voltate appena ero entrato e altrettanto aveva fatto il vecchio barista che parlava fino ad un istante prima con loro. Il nostro ingresso aveva scatenato il silenzio. Senza troppo pensare mi ero seduto davanti al grande tavolo e avevo chiesto una birra, seguito dagli altri. Una delle due “girl” ce le aveva portate, mentre il barista aveva acceso con qualche difficoltà una vecchia radio che trasmetteva west coast di fine anni sessanta. E intanto fuori continuava a piovere.

Arrivati alla seconda birra erano entrati nel bar anche due francesi, un indiano con la moglie, quattro coreani che si erano perduti e una famiglia di tedeschi. E tutti si erano seduti al nostro stesso tavolo. Ma c’era ancora posto, e non era passato molto tempo che anche due cinesi si erano aggiunti al gruppo di bevitori di birra, insieme a un siriano e due sauditi, che avevano però ordinato aranciata. E intanto fuori continuava a piovere.

L’illuminazione era venuta a Gigi, che nella noia di guardarsi tutti negli occhi senza parlare e nell’attesa di un improbabile miglioramento della situazione atmosferica se ne era uscito con un “Certo, davanti a un tavolo così ci vorrebbero anche due americani, così si potrebbero discutere e risolvere i problemi del mondo”. Io e Lucone avevamo riso per la bischerata, seguiti dai coreani e dai cinesi che lo fanno sempre per simpatia, ma subito mi ero messo a pensare che spesso nelle cose sceme ci sono nascoste delle grosse verità. Non erano passati dieci secondi che due ragazzi con la pelle nera e vestiti come rappers erano spuntati dal muro di pioggia. Purtroppo, nonostante le apparenze, erano inglesi. In compenso avevano le carte da scala quaranta.

Dove vivo io si gioca principalmente a ramino, e i miei due compari, essendo fiorentini, ne giocano una particolare variante che si chiama “conchino”. Però restammo sorpresi del fatto che le regole basilari erano conosciute da tutti gli ospiti di quella grande tavola rotonda, e tutti, nel loro paese, avevano un gioco di carte che pur con nomi strani e fantasiosi era nella sostanza identico. Erano bastate poche chiacchiere in un misto di lingue per accordarsi su un qualcosa che permetteva di metter su un bel torneo. Una volta iniziato, anche il barista avvicinatosi per portare altre birre aveva riconosciuto nel nostro modo di giocare qualcosa che conosceva bene e l’aveva chiamato con un nome simile al miagolio di un gatto che rimane con la coda chiusa nella porta di casa. Le due “bar girls” si erano invece accomodate alle spalle di un paio di giocatori, come fanno le “belle” dei film western, pur girandosi ogni tanto verso lo stesso barista e ripetendo quello strano miagolio. E fuori i rubinetti non li avevano ancora chiusi.

Dopo alcune ore, stancati dalle carte e riscaldati dalla birra, oramai padroni di un misto di lingue che permetteva a tutti di capirsi, o almeno di averne una percezione come se così fosse, ci eravamo addirittura avventurati in una discussione molto divertente. L’argomento più succoso era un confronto riguardo a come nei nostri diversi paesi e nelle nostre diversissime culture ci si comportava quando da innamorati si vogliono esternare i propri sentimenti all’altra persona, come ci si dichiara e cose del genere. E’ stupefacente come in parti tanto diverse del mondo, ciò che differisce sono solo alcune convenzioni sociali, mentre nella sostanza, quello che si prova per un “si” e cosa si soffre per un “no”, sono perfettamente identici. E su questo anche le due intrattenitrici del bar avevano dato un contributo importante, dimostrandosi delle vere esperte in materia.

Poi hanno chiuso i rubinetti.

E’ arrivato così il momento dei saluti e tutti abbiamo pagato il conto e ci siamo abbracciati con allegria. Le due tipe del bar ci hanno chiesto se qualcuno fosse stato interessato a proseguire la serata, ma abbiamo declinato l’invito, lasciando comunque una buona mancia. Quando siamo usciti fuori c’era un arcobaleno incredibile, non sfumato, con i colori definiti come non li avevo mai visti, quasi fossero dipinti in cielo. “Strano, sembra la bandiera della pace” aveva detto Gigi. Ma la cosa più strana è che era oramai notte fonda.

 
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