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La torre di babele (la politica è la sfera delle decisioni collettive sovrane, Giovanni Sartori).

Post n°257 pubblicato il 19 Dicembre 2010 da max_6_66
 
Tag: franca
Foto di max_6_66

Una sagra a dicembre. Beh, oramai sono proliferate superando ogni limite. Però non pensavo che con questo freddo qualcuno si sarebbe dato da fare intorno ai fornelli e alle griglie per riunire della gente sotto qualche tendone piazzato in un campo sportivo di periferia, per farla sedere su quelle stesse panche di legno che i vari comitati organizzatori fanno girare tra loro, in prestito da una sagra all’altra, che alla fine non si ricorda più chi ne era il proprietario. Ho visto i manifesti attaccati ai semafori e agli incroci da almeno dieci giorni e la cosa, con la sua stranezza, mi è entrata in testa. Non che ci volessi trascinare qualcuno del gruppo di amici festaioli, ma un salto, da solo, per curiosare, capire il senso di organizzare una sagra paesana a dicembre.

Ora che ci penso, non è sempre stato così. Di sagre ce ne sono sempre state. Sono le feste politiche e di partito che si sono diradate di molto. Quelle piccole, di quartiere, di paese, dove la politica non aveva rappresentanti altisonanti e visti in televisione, dove alla fine la differenza con le sagre era la presenza di bandiere colorate e di qualche dibattito. Ma questo non per sminuirle, ma al contrario per dare dignità ugualmente politica a tutte le occasioni dove le persone si riuniscono, fosse anche solo per mangiare un piatto di pappardelle al cinghiale, passando del tempo insieme, parlando, scherzando, bevendo il vino che costa poco ma si lascia bere. Chi ha inventato il termine, la parola, “politica”, intendeva probabilmente qualcosa di più simile agli abitanti di un paese in cima a una collina che si trovano tutti insieme, alcuni per  organizzare i turni davanti alla griglia, altri per andare con la famiglia a mangiare un po’ di costolette di maiale bruciacchiate, rispetto a quello che si vede durante i telegiornali e che viene chiamato con lo stesso nome. 

E quindi sono arrivato a stasera, mentre osservo i faretti che illuminano l’entrata di questa surreale sagra invernale, circa cinquecento metri davanti a me, il posto dove decido di parcheggiare, abbastanza lontano, il posto dove parcheggia uno che doveva parcheggiare lì per gli affari suoi, ma che vede quelle lucine lontane e si affaccia, giusto per curiosità. Piove un’acqua fine, che senti di non aver bisogno dell’ombrello, ma in realtà ti bagna come un temporale, anzi, più profondamente. E’ più fine, penetra più a fondo, ti infreddolisce fino alle ossa. Guadagno l’entrata con passo svelto e rimango stupito dal fatto che effettivamente c’è gente. Stanno addirittura facendo una gara di tiro alla fune.

Un gruppo di persone che tirano alla morte, aggrappati a quella corda, completamente infangati. E’ un gruppo  eterogeneo, ci sono uomini, donne e anche bambini. Tutti impegnati a tirare dalla propria parte e nello stesso tempo a inveire contro gli avversari, lontanissimi. La corda infatti è talmente lunga che si intravede a malapena il gruppo che tira dall’altro capo della corda. Gli spettatori invece sono tutti seduti su una tribunetta coperta, pochi uomini e donne, tutti ben vestiti, chiacchierano a bassa voce, quasi bisbigliando, poco interessati a ciò che avviene davanti a loro se non nel momento che qualcuno perde la presa e cade nel fango, o che una delle due fazioni sembra per un attimo prevalere, prima che un attimo dopo ritorni la parità. Mi alzo il bavero del cappotto e mi incammino verso il capo opposto della fune, spinto dalla curiosità di vedere l’altra squadra, cercando di scansare le pozzanghere.

Dopo circa trecento metri inizio ad intravedere gli antagonisti, anche loro sono un gruppo misto di uomini donne e bambini, e anche loro hanno le vene gonfie sul collo per lo sforzo, tirano, imprecano contro gli avversari, cadono nel fango, si rialzano. Come dall’altro capo ci sono anche bambini piccoli, mi soffermo a guardarne uno stupito dal fatto che sia stato coinvolto in una cosa così truce, sotto la pioggia, d’inverno. Ed è li che mi accorgo che lo stesso bambino, identico, era anche dall’altra parte. Anzi, tutte le persone erano dall’altra parte. Scappo come se avessi visto dei fantasmi, cercando di guadagnare l’uscita il più velocemente possibile. Mentre cerco le chiavi dell’auto in tasca sento un dolore al palmo delle mani, come una bruciatura. Esito prima di tirarle fuori dalle tasche, fino a quando il dolore, istintivamente, mi costringe a farlo, mostrandomi i segni della corda, il fango, il sangue.

In realtà non sono riuscito ad entrare in auto e scappare, ho sentito il bisogno di fare qualche passo a piedi, per calmarmi, per pensare. Osservo la gente che mi supera con passo svelto, o quella che mi viene incontro senza degnarmi di un'occhiata. Cerco con lo sguardo segni uguali ai miei, per curiosità, sperando di trovare condivisione, o forse compassione, ma li tengono tutti ben nascosti, in tasca o dentro guanti firmati. Mi ritrovo davanti alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, mentre da una parete di televisioni, tutte sintonizzate sullo stesso canale, va in onda lo spot pubblicitario di una crema idratante per le mani.

 
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