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Post n°110 pubblicato il 25 Gennaio 2010 da max_6_66
 
Tag: gianna
Foto di max_6_66

Antoine, la sua foto mentre vestito da aviatore guarda verso chissà cosa in chissà quale direzione, sui desktop di tutti i miei apparecchi che hanno un desktop, che in realtà mi ricorda quanto poco ci sia da guardare e molto da vedere. E dopo quindici anni mi ha fatto ricordare il motivo per il quale ho scelto di vivere, di abitare, nella casa in cui vivo. E’ successo questa mattina prima dell’alba, quando mi sono alzato per andare a Torino. Quando al buio e senza occhiali sono andato senza difficoltà al piano inferiore di casa mia per prepararmi il caffè.

L’essenziale è invisibile agli occhi. Penso di essere naturalmente e fisicamente predisposto per essere d’accordo con la frase di Saint Exupery, non solo per la forte miopia, ma sopratutto per tutte quelle volte che forse inconsciamente, (e a volte incoscientemente……), mi sono effettivamente basato poco su ciò che mi appariva. Mettiamoci una certa predisposizione mentale, tale per cui ancora oggi mi risulta difficile considerare il lato farsesco o pittoresco del Don Quixote di Cervantes, visto che tutte le volte che leggo quel libro non riesco a capire dove sono i mulini a vento, ne a vederli.

Circa quindici anni fa, sei mesi della mia vita, sei mesi di pranzi in macchina, guidando con un panino in mano, mentre  mi dirigevo all’appuntamento con un agente immobiliare. Penso che in quel periodo mi abbia salvato esclusivamente la mia curiosità patologica, perché se non fossi riuscito a trovare in questa cosa un lato piacevole e divertente ne sarei uscito nevrastenico. Le prime avvisaglie di questo pericolo le avevo notate rendendomi conto che mentre percorrevo una qualsiasi strada, della mia città come di un villaggio Africano del Serengeti (dove tra l’altro sono stato veramente quell’anno), i miei occhi, muniti delle apposite lenti, analizzavano per conto proprio qualunque fabbricato, casa o capanna in sterco di mucca, con lo sguardo del probabile acquirente.

Il caso fa sempre la sua parte, sta a noi guardare nella direzione giusta dove è posto ciò che ci offre. In quella situazione il caso fu il mancato rispetto di un appuntamento da parte dell’ennesimo agente immobiliare, che fece si che mi ritrovassi solo, lungo una qualsiasi strada, seduto su un muretto a mangiare il mio panino. Per il motivo prima enunciato, i miei occhi avevano già scannerizzato e analizzato tutte le case che potevo osservare stando seduto  su quel muretto un po’ diroccato. Già, quel muretto che apparteneva ad una casa, al cui ingresso dietro le mie spalle era affisso un cartello vendesi.

Troppo facile finire la storia qui, e infatti le cose non andarono come nelle migliori favole. Comunque mi ero preso il numero di telefono e avevo contattato il proprietario, tipo simpatico. Il giorno successivo ci eravamo incontrati e mi aveva detto lasciandomi le chiavi che avevo una settimana di tempo per andarla a vedere con calma tutte le volte che lo desideravo. La mia curiosità non poteva essere soddisfatta banalmente con un panino mangiato al suo interno durante l’ennesima pausa pranzo, quindi avevo preso anche l’intero pomeriggio di permesso dal lavoro. Il fatto di una scoperta così casuale quanto guidata dal destino aveva creato in me delle grandi aspettative.

Aspettative immediatamente deluse già quando arrivai per la seconda volta davanti alla casa. Non era né bella ne ben messa. Era abitabile ma necessitava evidentemente di abbondanti restauri, nonché dell’istallazione del riscaldamento. All’interno c’era odore di salottino chiuso, il salottino delle case costruite nell’immediato dopoguerra, il salottino dove non si entrava mai se non per il pranzo di Natale. Era disabitata sicuramente da alcuni mesi perché l’allacciamento elettrico era stato scollegato. Per fortuna avevo un pomeriggio intero a disposizione, che il ventuno di marzo (giorno in cui accaddero questi eventi), mi avrebbe permesso una certa luce fino alle diciotto abbondanti.

Quando sprofondo nei miei pensieri mi succede sempre che perdo la cognizione del tempo, aiutato dal fatto che in questo caso erano piuttosto vaghi, dubbiosi, una nebbia sulla quale appariva la scritta che comunque non avevo un’urgenza, una necessità impellente, di un posto dove vivere. Le mie motivazioni erano forti, con qualche sacrificio avevo economicamente la possibilità, ma come si vive a trent’anni a casa con i genitori, si può fare anche a trentuno. Camminare, muovermi, salire e scendere le scale, mi ha sempre aiutato (oltre a fare un po’ di moto…..) a diradare questa foschia dentro di me, quindi prima di andarmene e salutare per sempre quel luogo avevo deciso di compiere un’ultima escursione nella soffitta al secondo piano. E da dentro la piccola soffitta, appena abitabile ma utilizzabile assolutamente come ripostiglio, il mio impegno a capirci qualcosa  mi aveva distratto fino a quando era oramai buio. Fino a quando, per uscire all’aperto, avrei dovuto affrontare l’oscurità totale per due piani di vecchie scale in granito con i bordi arrotondati. Le stesse scale che da bambino, a casa dei miei genitori, potevano essere facilmente usate come scivolo, mettendosi un cuscino sotto il sedere e gettandosi di sotto come un incosciente.

Scendendo le scale e vagando al buio per la casa, appoggiando le mie mani alle pareti, mi resi conto che fino a quel momento non le avevo ancora toccate. Dal ventuno di marzo dell’anno successivo, abito in quella casa.

Dopo aver baciato un rospo, non è aprendo gli occhi che si vede un principe.

 
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