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L'ultimo giorno di scuola

Post n°204 pubblicato il 06 Giugno 2010 da max_6_66
Foto di max_6_66

“Livio Berruti, studente diciannovenne, si è riservato per i duecento piani. Berruti è timido, ma con l’ostinazione di chi ha fede in sé, è convinto che arriverà in finale. Vince il suo quarto di finale in venti secondi e otto decimi. Potrebbe ottenere un tempo migliore, ma è primo e non forza. Berruti è anche un giovane saggio, che pensa sempre al domani, e domani si corrono le semifinali e la finale”.

Quando non sono in giro per l’Italia ho un appuntamento fisso. Non è una cosa semplice, diciotto chilometri dall’ufficio di Firenze andare a pranzo dai miei genitori e altrettanti per rientrare al lavoro utilizzando un’oretta di pausa pranzo. Probabilmente mi aiuta uno strano meccanismo spazio-tempo tale per cui tutto si rallenta, permettendomi di arrivare dai miei, fare quattro chiacchiere riguardo a quello che è successo nei giorni che non ci siamo visti o sentiti, mangiare con calma senza alzarsi dal tavolo prima che tutti abbiano finito, scacciare il gatto dal divano per una lettura del giornale, salutare tutti, uscire di casa, tornare al lavoro in tempo utile. Unica variabile non controllabile, il passaggio davanti alle scuole elementari, che se intoppi l’ora di uscita, soprattutto nelle giornate di pioggia, rischia di farti ritardare di un po’. Ma quando ho l’opportunità di pranzare con i miei sono talmente rilassato che riesco a non spazientirmi per questi minuti di traffico caotico, fermo, in coda. E poi questa è stata anche la mia scuola. Osservo i bambini che escono correndo dal vecchio cancello di ferro. Mi sembrano tutti bambini, tutti uguali, non riesco bene a distinguere quelli più grandi da quelli più piccoli. Eppure, quando attraversavo io tutti i giorni quel cancello, riconoscevo alla prima occhiata uno di terza o di quarta da uno di quinta.

Quinta elementare, ero di quelli grandi, quelli che durante l’intervallo non facevano i girotondi o i giochi da bambini, ma parlavano di calcio e giocavano d’azzardo. C’è gente che ha vinto o perso una fortuna per un colpo indovinato o sbagliato, un sasso piatto di fiume che sul dietro dell’edificio, dove solo quelli di quinta potevano andare, che procedeva verso il mucchio delle con sopra le foto dei calciatori. Se colpivi il mucchio, quelle che cadevano erano tue. Quelle che non cadevano, andavano a formare il mucchio successivo, dove un altro avrebbe potuto tentare. Qualcuno, pur continuando a  parlare delle femmine come odiose nemiche, iniziava a fare un’eccezione per una di loro. Quinta elementare, eri pronto per il salto dello scalino. Presto saresti uscito per l’ultima volta da quel cancello per varcare quello della scuola in centro città, dove per andare dovevi prendere l’autobus e dove non c’era più la maestra, ma un professore diverso per ogni materia, che entrava ed usciva al cambio dell’ora. Io sapevo tutto. Avevo un fratello maggiore di tre anni che faceva valere queste differenze. Quando io sono entrato in prima, lui era già in quarta, quindi non portava il grembiule come noi bambini. Quando il grembiule l’ho dismesso io, lui era in prima media ed aveva un diario dove teneva gli orari con i cambi di materie e professori. Quando avrei raggiunto quel traguardo, lui sarebbe già stato alle superiori e sarebbe andato a scuola in motorino. Ma in quinta mi sentivo già grande, sulla rampa di lancio.

Avevo solo due problemi, avrei dovuto lasciare la maestra Ciatti ed avrei dovuto mettermi gli occhiali da vista, perché nel frattempo era venuto fuori che ero miope. Non so come funziona adesso. Allora io ho fatto cinque anni di scuole elementari con la stessa maestra. Nella mia vita, fino a quel momento, avevo avuto tre punti di riferimento diversi e ben distinti tra loro: il Babbo, la Mamma, la Maestra. Un gruppo di persone che ogni ora entrava ed usciva dall’aula non avrebbe potuto subentrare in questa catena di affetti. La maestra non ce l’avrei avuta più. E oltre a questo oramai ero “marchiato”, dovevo portare gli occhiali, ero un “quattrocchi”. A me non piacevano quelli che portavano gli occhiali, ero stato nei primi anni uno dei persecutori e canzonatori più assidui. E adesso toccava a me. La nuova avventura non iniziava sotto i migliori auspici.

“Nella semifinale Berruti ha di fronte due statunitensi, Norton e Jhonson. Non ha uguali nel passaggio della curva, quasi per lui la forza centrifuga non esistesse. Lo stupendo equilibrio gli consente di sconfiggerla. Quando esce dalla curva, Berruti è chiaramente primo. Venti e zerocinque, nuovo record olimpico e record mondiale eguagliato” (nda, in realtà era un errore del telecronista, il tempo era venti e cinque).

La scuola superiore ha due momenti fondamentali. Il raggiungimento della maggiore età (comprensivo del conseguimento della patente di guida) e l’esame di maturità. Le due cose arrivano in modo piuttosto ravvicinato e insieme rischiano di impastarsi ulteriormente con le prime esperienze sessuali. Una miscela esplosiva, un vulcano dove al suo interno si impastano cambiamenti, eccitazione, paura. Fino al giorno dell’eruzione, il giorno che fanno il tuo nome e ti trovi seduto davanti ad un gruppo di persone che ti interrogano, che cercano di vedere se sei pronto, maturo. Fa molta nausea i giorni precedenti e molto dolore nel momento che ti siedi, poi inizi a scioglierti e quei minuti diventano velocemente un’ennesima manciata di sabbia sulla spiaggia della tua vita. Ricordo solo la leggerezza del mio corpo quando mi sono alzato ed ho salutato i professori con una stretta di mano. Era la prima volta che li salutavo così. Non ero più un bambino, ero “maturo”, un uomo. E gli uomini si salutano tra loro stringendosi la mano. L’uscita all’aperto, il sole di luglio che abbagliava, come se fossi rimasto tredici anni rinchiuso in una caverna, i passi sicuri nel discendere la scalinata, il blocco improvviso dieci metri prima del cancello, della vera frontiera. Li vedevo tutti li, in doppia fila come una guardia d’onore, la maestra Ciatti e i professori delle medie, quelli delle superiori, i compagni di banco, i primi amori, gli amici e i nemici, come per un saluto d’onore nel momento in cui varcando il cancello, li avrei lasciati per sempre all’interno. Fuori, sul marciapiede e sulla strada, automobili, moto urlanti, gente che camminava con passo spedito, un gruppo di operai che riparava la strada, donne con le borse della spesa, polizia e ambulanze con le sirene spiegate, polvere e smog. Mi sono sbottonato la camicia fino a scoprire il petto e sono uscito.

“C’è il rituale che precede l’ultima prova. L’unico ad essere calmo è Livio Berruti, che fa gli onori di casa (dovere di ospitalità che gli compete) ai suoi rivali, preoccupati per la prova imminente. E’ il momento della verità. Berruti sorpassa le vittime della forza centrifuga. Un augurale volo di colombi, e la vittoria ! Tempo: venti e zero cinque (nda, continua l’errore del telecronista). Per due volte nello spazio di due ore, Berruti ha ripetuto il tempo del record mondiale”.

Dimenticavo un cosa importantissima, ovvero come fece mio padre per convincermi a portare gli occhiali quando entrai in prima media. Un giorno, mentre guardava la  televisione nella stanza adiacente a quella dove mi trovavo io, mi chiamò, invitandomi a sedere vicino a lui per osservare quello che si vedeva dentro lo schermo. C’erano sei uomini in pantaloni corti che camminavano nervosamente su una pista rossa. Quattro avevano la pelle scura, uno era vestito di rosso, il sesto, il più magro e tranquillo, salutava gli altri cinque sorridendo e stringendo loro la mano. Aveva una canottiera azzurra, e portava gli occhiali. Un colpo di pistola, l’inizio della corsa. Il ragazzo con gli occhiali arrivò primo.

 
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