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Post n°65 pubblicato il 20 Novembre 2009 da max_6_66
 
Tag: massimo
Foto di max_6_66

Aereo appena atterrato, in lontananza il fabbricato a forma di rombo con scritto “Aeropuerto Internacional Ministro Pistarini”, che tutti in realtà chiamano “Ezeiza”. Nonostante il momento delicato mi sentivo tranquillo. Era la terza volta che arrivavo fin li. Avevo preso il mio bagaglio a mano quando i miei vicini di sedile si erano alzati già da alcuni minuti. Non era per paura che avevo aspettato fino all’ultimo. Faccio sempre così. Il pullman che viene a prenderti sotto l’aereo non è che lo perdi…..ti aspetta. E se è pieno ne arriva sempre un altro.

Da bambino volevo fare l’inventore. Un po’ perché era la stessa cosa che diceva il mio fratello maggiore, che infatti è diventato uno scienziato, un po’ per la simpatia verso Archimede Pitagorico, colui che mettendosi un cappello in testa a forma di caminetto sul quale giacevano appollaiati due uccelli, pensava e inventava cose assurdamente geniali per Zio Paperone e soprattutto per Paperinik. Ecco, forse era in realtà lui la mia segreta aspirazione, l’eroe. Non per niente passavo le giornate con uno strofinaccio da cucina annodato al collo. Era il mio mantello. Crescendo ho capito che l’inventore non era in realtà un mestiere e nemmeno diventare un supereroe era alla mia portata, ma ringrazio più di ogni altro coloro che in quei momenti non mi hanno svelato queste verità, assecondandomi e permettendo alla mia capacità di sognare di crescere in salute. Una salute di ferro.

Dopo dieci ore abbondanti di volo, che io avevo passato come sempre dormendo per la maggior parte del tempo, avevo una gran voglia di sgranchirmi le gambe, di allungare i muscoli. Sapevo bene però che era anche una necessità. Mi dovevo preparare, appena le porte automatiche si sarebbero aperte, dal momento cruciale mi separavano molti passi, di quelli che però si percorrono in fretta. Camminavo allora cercando di non pensare, perché le cose devono venire con naturalezza. Sforzarsi rende goffi e impacciati,  se ne accorgono e ti beccano subito. Non pensare, tranquillo, come un vecchio topo solitario di Milonga, che si trasforma magicamente in un Rodolfo Valentino con lo sguardo triste appena il bandoneon rilascia lo strascico delle prime note. E al cui abbraccio la donna di turno non riuscirà a divincolarsi fino al mattino successivo, quando si sveglierà sola tra le lenzuola.

Le malattie infantili come il morbillo o la scarlattina possono essere piuttosto gravi se contratte nell’età adulta. La scoperta però che non sarei mai stato un inventore o un supereroe dei fumetti Disney non è stata traumatica benché piuttosto tardiva e ben oltre l’età adulta. Forse perché nel frattempo a queste fantasie se ne erano aggiunte e sovrapposte altre. Poi dieci anni di vuoto, di buio, durante i quali ho raggiunto l’unica cosa che non avevo mai sognato, ma che mi ha dato di che vivere, comprare una casa, eccetera eccetera. Fino ai primi sintomi di tre anni fa, i primi risvegli in un bagno di sudore. E un nuovo sogno è riapparso. E’ per questo motivo che adesso mi trovavo all’Aeroporto di Buenos Aires.

Mi ero messo in fila e li intravedevo già, nei loro casottini con il cartello “Imigracion”, che controllavano i passaporti, osservando il volto di chi capitava loro davanti in quel momento. Ogni tanto si alzavano dalla loro sedia, invitando lo straniero davanti a loro a seguirli in una stanzetta poco lontano. Dopo pochi minuti ritornavano al loro posto. Da soli. Sapevo che probabilmente sarebbe toccato anche a me, ma mi sforzavo ancora di non pensare, di rimanere tranquillo, rilassato, stirandomi e preparando i muscoli nello stesso tempo. Il mio turno, l’agente sfogliava il passaporto. I due timbri, la smorfia di un sorriso ironico che compariva sul suo volto, giusto una frazione di secondo prima di alzare lo sguardo serio verso di me. Si era alzato dalla sedia, e uscendo dalla sua postazione mi aveva invitato a seguirlo. Mentre camminavo verso la stanza della prova  mi tremavano le gambe. Colpa alla stanchezza, forse. Un respiro profondo. Aveva aperto la porta invitandomi ad entrare e richiudendola immediatamente dietro di me. Nella stanza un uomo si stava rivestendo tristemente, forse un tedesco, probabilmente reduce da quello che sarebbe successo a me di li a poco. Il biondo si era allacciato le scarpe ed era uscito, portato via da un altro agente che lo teneva per un braccio.

Buenos Aires, quartiere Palermo, Avenida Santa Fé. Un piccolo appartamento dove passare sei mesi da solo, a pensare, a scrivere.

Ciò che mi separava da tutto questo era davanti a me. Due uomini e una donna in divisa, seduti ad una scrivania. La donna si era alzata, avvicinandosi senza staccare per un istante il suo sguardo dal mio. Un vestito lungo e scuro. Sulla sedia vicino a me i vestiti per la prova, così come li aveva lasciati il tedesco. Camicia bianca, pantaloni neri con le bordature lucide, di raso. Sapevo che la cosa era già iniziata. Per questo avevo cercato di compiere l’operazione del cambio di vestito nel modo più sciolto possibile, cercando di ostentare sicurezza. I due tipi rimasti alla scrivania cercavano però di forzare i tempi e la musica era partita proprio mentre stavo chiudendo la cerniera dei pantaloni. Astor iniziava a diffondersi nella stanza e l’istinto mi portava comunque a prendere tra le braccia la donna. Non volendo strafare, avevo approcciato la Salida Basica, cercando di far entrare il suono del bandoneon dentro di me, perché mi aiutasse penetrare tristemente lo sguardo della mia compagna. Funzionava, la sentivo docile, abbandonata,  ipnotizzata. Ma era stato proprio li che l’errore mi aveva teso l’agguato. Ocho Adelante, Ocho Atràs, un Sospeso per riprendere fiato, sentendomi  un po’ rigido e scolastico, Medialuna, un Sospeso ancora, cercando di fissare il suo sguardo oramai sfuggito,  Ocho Atràs troppo rigido, Mordida. Niente da fare. E qui la musica era stata fermata. Mi ero avvicinato alla scrivania dove uno dei due stava apponendo sul mio passaporto un timbro, il terzo: “expulsado a l’imigracion, no sabe bailar Tango”.

Avevo ripreso possesso dei miei vestiti ed ero stato portato fuori della stanza. A poche decine di metri da me le porte automatiche oltre le quali iniziava al mio sogno. Quella strada costiera che poco più a nord avrebbe preso il nome di Avenida Rafael Obligado Costanera, la striscia d’asfalto che contiene il Mar del Plata con poco oltre il battello che porta a Colonia. Ma li è già Uruguay, quindi la mia fantasia si era fermata, non volendo invadere il sogno di qualcun altro, chissà.

Cercando di ricondurre i miei pensieri  sull’aereo che anche questa volta mi avrebbe riportato indietro. Ripensando che appena sarei arrivato a casa, per prima cosa avrei aperto l’armadio di camera, dove in un angolo, ripiegato con cura, c’è un vecchio straccio da cucina con un “P” disegnata a pennarello.

 
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