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Osso di pesca

Post n°171 pubblicato il 14 Aprile 2010 da max_6_66
 
Tag: Anna T.
Foto di max_6_66

Mariapaola, ventiquattro anni, un figlio di due, e la voglia improvvisa di mangiare una pesca. Il sapore sugoso, un po’ acido ma allo stesso tempo dolce, che ti soddisfa e ti disseta, come l’acqua quando hai sete. Una pesca. Solo che siamo nell’autunno del 1965, la stagione delle pesche è finita e i supermercati dove al reparto frutta trovi le ciliegie a gennaio, ancora non esistono. Con il bimbo piccolo e la vecchia nonna decide di andare a fare una passeggiata. Il bimbo cammina poco e malvolentieri, e la bisnonna ancora forte lo ha abituato a portarlo in giro tra le sue braccia, anche adesso che il suo peso inizia a farsi sentire.

Appena in tempo. Il tempo piovoso ha fatto accavallare gli impegni presi, ma ce l’ha fatta ad arrivare proprio l’ultimo giorno prima che il vento cambiasse facendo alzare la temperatura. Gli alberi vanno potati prima che si sveglino perché soffrono meno. L’inverno è come un letargo e questo loro dormire funziona come una specie di anestesia. La potatura, se ben fatta, è una cura, ma per la pianta è dolorosa. Se svolta nel momento sbagliato può addirittura farla soffrire fino alla morte. In ogni caso, il signore che svolge questo lavoro nel mio giardino è appena arrivato, e siamo ancora in tempo. Lo sento scaricare la scala mentre mi sto facendo la barba. Lui arriva, fa in un paio d’ore il suo lavoro, carica i rami tagliati sul furgone, se ne va. La sera, dopo cena, vado a prendere un caffè a casa sua, e gli do quanto abbiamo stabilito.

Si tratta di un lavoro che sarei in grado di fare benissimo da solo. Solo che non ci riesco. Non riesco ad usare le cesoie su un albero, tagliare dei rami. Sentirei il suo dolore, proverei una sensazione come se tagliassero qualcosa a me. E’ un fatto di carattere. Non riuscirei mai nemmeno a fare il dentista. Non si tratta di una esagerazione, e non voglio certo dire che riesco a sentire le piante parlare. La definirei più una strana empatia. Come se esseri senza bocca e corde vocali fossero in realtà dotati di organi che producono comunque una comunicazione, una vibrazione, qualcosa forse più mentale e cerebrale che fisico. Beh, qualunque cosa sia, io la sento, e quando viene il signore che pota i miei alberi, io rimango per tutto il tempo che lui compie il suo lavoro chiuso in casa, nella stanza più lontana possibile dove ciò avviene, possibilmente leggendo o comunque facendo qualcosa che sia in grado di distrarmi il più possibile da quello che sta succedendo.

Non stiamo parlando di una passeggiata lungo la strada, ma su una delle strade sterrate che uniscono i vari gruppi di case. Di strade asfaltate ce n’è solo una, alla quale tutti quei sentieri confluiscono per portare al mattino le persone al lavoro in fabbrica. Succede così che la passeggiata non distrae dalla voglia matta di quella pesca, ma ne aumenta il desiderio, appena arrivata davanti alla casa dei vicini, dove un albero si fa ben riconoscere dalla forma finemente seghettata delle foglie. Perché nel 1965 le persone sapevano ancora riconoscere un albero dalle foglie. C’è di più, sono un po’ meno slanciate di quelle comuni. Si tratta di un pesco selvatico, i cui frutti arrivano a malapena a raggiungere il colore giallo, rimanendo di piccole dimensioni. Il sapore è più aspro ma molto intenso e se ne ricava una marmellata buonissima. La ragazza rimane assorta nell’osservazione della pianta. In bocca il sapore di quei frutti, assaggiati tutte le volte che in stagione è passata di li e che i vicini l’hanno invitata a coglierne. Adesso arriva solo un saluto da dietro i vetri della porta di casa che da sul cortile. Ma questa sua contemplazione non passa inosservata, la vicina esce di casa e si incammina verso Mariapaola, nonna Anna e il piccolo Marco.

Quello che siamo, qualunque cosa siamo, non è comunque un caso. Il carattere è qualcosa di difficilmente comprensibile e misurabile. E’ difficile persino conoscere bene se stessi. Però, ogni singola caratteristica ha la sua propria origine e motivazione. Sicuramente l’ambiente in cui si nasce, si cresce e si vive ha la sua importanza, ma solo come condizionamento, modellamento e adattamento di un qualcosa che alla base viene creato insieme a noi. Una piccola carta d’identità che ha le sue ragioni chimiche e biologiche.

La vicina ha capito benissimo, in mano tiene qualcosa di tondo e verdognolo. Si tratta di una piccola pesca selvatica, tardiva. La ragazza sorride in principio per salutare l’amica e si avvicina a sua volta per abbracciarla, come fa tutte le volte che passa di li. Si, perché nel 1965 i vicini si conoscevano tra loro e quando si incontravano si davano la mano se erano uomini e si abbracciavano e baciavano se erano donne, rimanendo un po’ a parlare. Appena sono vicine, Mariapaola si accorge del piccolo frutto e inizia a ridere. Perché quando desideri alla follia una pesca, non c’è niente di meglio di una pesca per renderti felice. Il tempo di prenderla dalle mani dell’altra donna, passarla velocemente sotto l’acqua della pompa a mano per togliere un po’ di peluria, e il primo morso viene dato chiudendo gli occhi. Velocemente il secondo, poi quel che resta del frutto viene messo in bocca per intero. Un attimo di panico, sentendo un leggero soffocamento mentre qualcosa di duro e legnoso attraversa la gola, trovando poi per fortuna lo spazio per scendere insieme alla polpa. La vicina e la nonna ridono di questa voracità, si danno esperte occhiate di intesa, poi convengono che è una fortuna che si trattasse di una piccola pesca, quindi con un piccolo nocciolo che ha potuto essere ingoiato senza troppo pericolo.

Le donne parlano ancora un po’, poi si separano. Mariapaola e la nonna si incamminano verso casa con il piccolo Marco. Lo scenario è quello dell’ora del tramonto di fine settembre, l’argomento è ancora quello dell’osso di pesca. Ed è a quel momento che la nonna dice alla nipote, che il seme dentro di lei potrebbe dare una nuova pianta, così come il seme dell’uomo le sta dando un altro figlio, e mischiandosi le cose, la nuova creatura che nascerà sarà un uomo e anche un albero. Mariapaola, abituata fin da bambina alle storie fantastiche della nonna raccontate per tanti inverni davanti al focolare, risponde con un sorriso e non da peso alla cosa. Ci ripensa ancora mentre prepara la cena, come si pensa a una favola, per poi dimenticare la cosa con il sonno della notte, visto che non è incinta.

E invece no, perché  il 19 Giugno del 1966, Mariapaola da alla luce il suo secondo figlio. E lo chiama Massimo Piero.

 
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