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Il sogno della porta

Post n°263 pubblicato il 09 Gennaio 2011 da max_6_66
Foto di max_6_66

Le mie vacanze natalizie stanno terminando. Abbiamo un concetto confuso del tempo, passiamo la vita a registrarne i momenti in cui passa troppo lentamente da quelli in cui corre. Eppure, il tempo scorre sempre alla medesima velocità. Non è che quando aspettiamo le vacanze l’orologio giri più lentamente rispetto a quando le stesse vacanze le stiamo vivendo. Stessa cosa che avviene quando siamo in anticipo per un appuntamento rispetto a quando siamo in ritardo. Per me personalmente, quando sono in ritardo, questo differente valore del tempo spesso arricchisce la situazione di tutta una serie di ulteriori variabili e dettagli.

Inutile pensare a tutto negli attimi prima di uscire, perché solo appena chiusa la porta ti verrà in mente che hai sete, una sete tremenda che ti fa incollare la lingua al palato. Pochi minuti per rientrare in casa e bere non sono certo quelli che fanno la differenza, nemmeno se già sei in ritardo, a patto che tutto vada secondo la logica. Ecco il momento in cui scopriamo la  fragilità delle nostre certezze. Infilo la chiave nella serratura e la porta non si apre. La fretta può generare errori banali, ricomincio dal principio. La chiave è quella giusta, la porta è quella di casa mia, infatti il cilindro della serratura gira correttamente. Ma non si apre. La sensazione è proprio quella di qualcosa che impedisca alla porta di aprirsi, come se fosse bloccata da qualcosa di pesante dall’interno, costringendomi come prima reazione a spingere più forte. Ma se sono appena uscito, non può essere successo niente del genere. Nemmeno i cardini possono essere bloccati, visto che pochi istanti fa scorrevano perfettamente. Rimango ad osservarla con il cervello paralizzato e lo sguardo inebetito.

Non penso nemmeno al fatto che comunque in casa prima o poi devo rientrare, è proprio la sete che in questo momento diventa talmente forte che mi impedisce di pensare a tutto il resto. Riprovo ancora da capo, scelgo la chiave, la inserisco, la giro , spingo. Niente da fare. Spingo più forte, inizio a tempestarla di pugni e calci, fino a che un tentativo estremo di dare una spallata dopo un paio di metri di rincorsa mi provoca un certo dolore e mi costringe alla ritirata per leccarmi le ferite. Una porta di cipresso massiccio, di quelle che si facevano cinquanta anni fa o anche più. Non si sfonda nemmeno con un piccone. Per fortuna sono un ottimista patologico, e quando mi succedono queste cose la prima reazione è sempre quella di riderci sopra.

Sono una persona puntuale, quindi se per una volta ritardo non c’è niente di male. Sto solo pensando che non posso avvertire perché non ho il numero nella rubrica del cellulare ma appuntato su un foglio di carta. Che è in casa. In piedi davanti al portone cerco di pensare, solo che non riesco bene a focalizzare il cervello in modo esclusivo e razionale sul lavorare al fine di trovare una soluzione. Se ne va come sempre un po’ per conto suo. Però una cosa era ben chiara nella mia testa fin dal principio: non si trattava di un problema tecnico o meccanico, ero stato sfrattato da casa mia. Non sapevo come o da chi, forse dalla casa stessa, ma per il resto non avevo dubbi.

Separato forzatamente e per sempre da centinaia, forse migliaia di momenti vissuti, anche banali e quotidiani come la preparazione di un pranzo, avvenuti li dentro. Ma anche momenti passati insieme a persone care, momenti di allegria o tristezza, giri completi di orologio della mia vita. La nostra vita è tempo che trascorre, e in quel momento mi sentivo come se un pezzo consistente della mia fosse stato arrestato e messo in prigione, oppure rubato, in ogni caso sottratto al mio possesso.

Quanti pezzi di vita vengono sottratti in un minuto nel mondo. Interviene sempre un fatto violento, che sia esso compiuto dalla natura o da altri uomini. Quante persone in questo stesso momento stavano provando la stessa cosa. E forse chiudendo gli occhi, che mi sono trovato a fare un viaggio intorno al mondo, soffermandomi solo per un istante davanti a una porta, vicino ad altre persone, per poi ripartire e trovarmi dopo un attimo davanti a un’altra porta, insieme ad altri. E via così chissà per quante volte. Poi un altro giro della lancetta dei minuti e c’erano ancora altre persone. Nel giro di un’ora era un popolo. E tutti indugiavano immobili per un attimo, prima di voltarsi per sempre e incamminarsi verso chissà dove, qualcuno piangendo, molti pregando. Tutti cercavano con lo sguardo il componente del gruppo più anziano, o quello più forte, come se i loro occhi cercassero di aggrapparsi ai suoi, in attesa di una parola, di una risposta che non sarebbe arrivata attraverso le labbra, ma solo con un abbraccio, o una carezza. E quando lui si voltava e si incamminava, lo seguivano. Non so quante volte ho fatto il giro del mondo, un istante e poi immediatamente dopo lontano mille miglia. E’ andata avanti così fino a quando, improvvisamente, davanti a una porta, tutti si sono messi a guardare me. Sono riuscito a quel punto a fare un sorriso, mi sono voltato e ho cominciato a camminare, seguito da quel gruppetto di persone.

Non ho sorriso per circostanza, o come tentativo di dare comunque un cenno di speranza a questi che mi guardavano. Ho sorriso perché anche se non sapevo dove mi trovassi, ero certo che camminando e camminando sarei arrivato davanti a casa mia, e a quel punto, la porta si sarebbe aperta da sola. Nel frattempo, intanto, mi era passata la sete.

 

(Simon Weil, Parigi 1909–Ashford 1943. Filosofa, sindacalista, insegnante, operaia, rivoluzionaria, soldato, idealista, anarchica, mistica, ebrea, cattolica)

 http://www.zam.it/biografia_Simone_Weil

 
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