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Cecco

Post n°195 pubblicato il 19 Maggio 2010 da max_6_66
Foto di max_6_66

Cecco, il cugino di mia madre. O meglio, Francesco sarebbe il suo nome, ma tutti lo chiamano da sempre Cecco. Non si tratta solo di un diminutivo per comodo, per risparmiarsi la fatica della pronuncia del nome per intero, quanto di un vero e proprio soprannome. La differenza è sostanziale, nella tradizione tutta italiana (e moltissimo in Toscana, tra l’altro luogo probabile di origine del detto “mamma…..Cecco mi tocca….!”), dove il soprannome definisce la persona per una sua peculiarità, una caratteristica che lo distingue talmente bene che un giorno il nomignolo nasce e prende campo, senza che si sappia chi è il primo che si è fatto uscire dalle labbra quel suono, se una mamma arrabbiata per l’ennesimo guaio combinato o il gruppo degli amici, a quel tempo bambini e compagni di marachelle, per esaltare quel guaio medesimo. Anche mia madre, poco più grande di lui, ma compagna di giochi per l’intera infanzia, tiene come più preziosa una foto fatta durante una gita a Roma, dove lei con l’amica posano da signorine degli anni sessanta con il Colosseo sullo sfondo, con dietro Cecco che tiene due palloncini giganti e allungati, come ingigantendo a dismisura il più classico degli scherzi fanciulleschi, quello che si fa con il mignolo e l’indice dietro la testa dell’amico immortalato del fotografo.

E’ da questa mattina che ho appunto tre pensieri: il cugino di mia madre, una canzone che mi gira per la testa e non ne so il titolo, e una persona che sta soffrendo molto. Mi sembrano tre cose così slegate tra loro che in principio incolpo la foschia dentro la testa tipica del lunedì mattina.

Una canzone che ti gira vagamente per la testa può essere una tortura fino a che non la riconosci o non ricordi chi la canta. Quando poi trovi la risposta, l’appagamento ti avvolge. A quel punto un’orchestra suona dentro la tua testa e ti fa da accompagnamento, perché poi è inevitabile che inizi a cantarla. Ecco cosa c’entra Cecco, è lui il cantante di questa canzone. Mi stupisco dalla banalità del motivo che mi gira per la testa. Cecco è uno dei protagonisti dell’operetta “l’acqua cheta”,  e per me ha il volto di Renzo Montagnani, quando nella versione del 1974 trasmessa in RAI dalla sua carrozza canta “com’è bello guidare i cavalli”. E’ veramente una canzone banale, ma mi sta trasmettendo una sensazione piacevole, qualcosa che forse è allegria, forse serenità, forse pensandoci bene una cosa che non è nessuna delle due. La stessa sensazione che proverei se percorressi una bella strada della campagna toscana seduto sul mio calesse, proprio come Cecco, tenendo morbida la briglia ma non troppo, come per stimolare una andatura di piccolo trotto al cavallino, e osservando insieme a lui il tardo pomeriggio che conduce verso il tramonto e costeggiando dei grandi campi di girasoli pronti a chinare il capo e addormentarsi di li a un’oretta.

Sono circa dieci giorni che non riesco a scrivere. Ho un grande peso che mi opprime e questa sciocchezza di canzoncina mi da un po’ di respiro. Anzi, forse è proprio il profumo dei campi dove mi sta conducendo con la fantasia che obbliga i miei polmoni a respirare, che sta facendo tornare un po’ di colore roseo sulle guance, proprio come se fossi Cecco, con il suo cavallino che lo accompagnava per gli sterrati campagna, ma giusto quelli che univano un’osteria di paese all’altra, oramai per pratica e abitudine padrone della strada da seguire meglio di un navigatore satellitare. Perché in questi giorni ho masticato solo impotenza e rabbia. In principio, la sofferenza di una persona vicina ti rende profondamente triste e infelice. Poi la frustrazione del fatto che non puoi fare niente ti porta a maledire tutto e tutti, a bestemmiare e dare la colpa alla natura, per poi chiuderti in te stesso, come nudo e paralizzato dal freddo, in una stanza senza finestre.

S' i' fosse foco, arderei 'l mondo;
s' i' fosse vento, lo tempesterei;
s' i' fosse acqua, i' l'annegherei,
s' i' fosse Dio, mandereil' en profondo;
s' i' fosse papa, sare' allor giocondo,
ché tutt' i cristiani imbrigherei;
s' i' fosse 'mperator, sa' che farei?
a tutti mozzerei lo capo a tondo.
S' i' fosse morte, andarei da mio padre;
s' i' fosse vita, fuggirei da lui:
similmente farìa da mi' madre.

Lo zi’Cecco, il cugino di mia madre, il suo modo di prendere in giro tutti, se stesso, le vicende della vita. Mi ricordo un momento bello che abbiamo vissuto insieme, quando attendevamo all’ospedale la nascita del suo secondo nipotino. Prendendo spunto dal luogo dove eravamo il discorso era caduto inevitabilmente sul fatto che a pochi metri di distanza a volte si mischiano grandi gioie e grandi sofferenze, il primo pianto e l’ultimo di un essere umano. “Ricordati Massimopiero, quando il vento ti soffia contro che sembra avercela proprio con te e il destino sembra pronto a presentarti un conto salato, confondili, stupiscili, fai una cazzata, una cosa assurda, una cosa che non si aspettano. Guardali in faccia e ridi, fagli una pernacchia. A quel punto voltati e incamminati piano piano, cantando dentro di te una di quelle canzoni che fanno bene al cuore, una di quelle che quando le canti la faccia ti sorride per forza. Vedrai che rimarranno talmente male, che quando si renderanno conto che li hai presi in giro, oramai sarai lontano e avranno perso le tue tracce ”.

S' i' fosse Cecco, com' i' sono e fui,
terrei le donne giovani e leggiadre,
e vecchie e laide lasserei altrui.

Ho ancora quella canzone in testa e oggi è martedì. E’ una sensazione veramente di pace quella che mi trasmette. Ecco, ho trovato la parola giusta, Pace. A quel punto mi sono chiuso in casa, al buio, e ho iniziato a pensare, a cercare di immaginare. Non so se mi sono addormentato, se ho sognato, fatto sta che a un certo punto mi sono trovato seduto davanti a un letto, dove c’era una persona con gli occhi chiusi, come se dormisse. Una persona che conosco, anche se non l’ho mai vista, e che in questi giorni sta molto soffrendo. Quando sono arrivato la canzone cantava dentro di me, a pieno volume, proteggendomi dall’odore dei medicinali e di stanza chiusa. Con il passare dei minuti il volume nella mia testa diminuiva e la persona che vegliavo cambiava l’espressione del suo volto. Quando la canzone è sparita del tutto dentro di me, rimboccandogli le coperte, ho visto su di lei il sorriso che hanno i bimbi quando dormono. Sono potuto rimanere ancora per poco, prima di essere richiamato al mio presente. Ho riaperto gli occhi in casa mia, al buio, sdraiato sul divano, con dei segni sulle mani, come se avessi stretto una corda, un laccio di cuoio, forse le briglie di un cavallo.

 

 
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