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Il muro & il nero

Post n°341 pubblicato il 15 Dicembre 2013 da max_6_66
Foto di max_6_66

 

Aria impregnata di fumo e vapori di benzina, mattoni sul cofano e sparsi sul marciapiede. Odore di gomme bruciate, lo stesso che si potrebbe sentire dopo una brusca frenata come dopo una accelerata folle. Tutti guardano l'auto che si è schiantata contro il muro. E inizia la ressa, lontana in un primo momento per poi avvicinarsi  morbosamente un mezzo passo alla volta. Davanti a tutti il solito coraggioso, seguito a pochi centimetri per volta dagli altri, alla spicciolata, tutti in attesa di quel cenno di disgusto e del volto che si gira solo in un primo momento dall'altra parte, per poi cedere, dopo questo gesto ruffiano verso la logica benpensante comune, al gusto del particolare macabro. E invece se lo sono preso tutti nel culo, perché nella macchina non c'è nessuno. Pantaloni, camicia, mutande, calzini, tutti ripiegati con cura sul sedile e coperti da frammenti di vetro e calcinacci. Un mattone, vicino alle scarpe. Un sacchetto trasparente, pieno di polvere nera, abbandonato sul sedile posteriore. Non c'è altro, non si capisce. Un uomo si è sfracellato con la sua auto contro un muro, per poi fuggire nudo prima che arrivasse gente.

Bambino di periferia, percorrevo quasi un chilometro a piedi, sul marciapiede, lungo la fila di case a due piani, addossate a schiera, prima di arrivare nell'unico punto dove magicamente la fila si interrompeva. L'unico punto dove tra due case, invece di un'altra casa, c'era il vuoto, incolto e pieno di erbacce. Il luogo dove per la prima volta ho detto che avrei voluto fare il pittore. Era  arrivato il mio turno di parlare riguardo a cosa avrei voluto fare da grande, dopo due piloti di aerei, un ingegnere (di quelli che costruiscono i ponti), un inventore e tre maestre. Adesso lavoro in un supermercato, mi sono comprato la macchina nuova, ho un figlio che vedo poco, più di sua madre comunque, e appena termino il turno rientro a casa, mi preparo un caffè ed entro nell'atelier. Tutte le sere, prima di andare a dormire, fisso della tela da imballaggio riciclata ad un telaio che costruisco con i legnetti delle cassette per la frutta, spalmo la mestica che ho preparato quando è ancora tiepida e appoggio il tutto con cura sul tavolo, in modo che quando nel pomeriggio del giorno successivo entro di nuovo in quella stanzina uso lavanderia che chiamo l'atelier, posso fissare il telaio con la tela al cavalletto ed iniziare. A quel punto posso prendere la polvere di nero, metterla nella bacinella e stemperarla bene con il solvente. Quando non ci sono più grumi inizio a girare il composto con più decisione ma senza esagerare, per il tempo che occorre fino a che la sento, come dire, più cremosa. Solo allora appoggio il tutto sul tavolo per alcuni istanti, il minimo necessario per riposare il polso, ma prima che il composto perda la sua consistenza calda, bituminosa. Pochi colpi di pennello piatto sulla tela, decisi e precisi, con la giusta abbondante quantità, e il lavoro è finito. Le prime volte ci mettevo molto di più, ripassavo, facevo molti strati, ma il risultato era in realtà di una uniformità inferiore. Adesso mi vengono di un nero molto più nero. 

I primi disegni, di quelli veri, di quelli che io avevo voglia di fare un disegno e l'ho fatto, li ho fatti in quel prato incolto tra le due case. Ho sempre pensato che non mi sarebbe bastata una vita per disegnare tutte le cose che lo popolavano, tra migliaia di sassi, piante, animali veri e presunti. Perché scavando di qualche centimetro già si trovavano dei lombrichi grandissimi, formiche rosse, nere e trasparenti, millepiedi e grillitalpa, cavallette da tana e bruchi dormienti sotterranei, figuriamoci cosa si sarebbe trovato scavando per mezzo metro. O per un chilometro. Abbiamo passato giornate intere ad immaginarci questi animali e dare loro dei nomi. E oltre la parte verticale c'era poi da considerare quella orizzontale, perché questo corridoio non era lungo come le case che erano ai lati, ma molto, molto di più. Un fiume che sfociava in uno mare verde ancora più grande, un mondo nascosto dietro le case, che avevamo già pianificato di esplorare quando saremmo stati più grandi. Questo però non è mai successo, perché qualcuno aveva costruito un muretto e non si entrava bene, e solo qualche coraggioso ogni tanto lo saltava e ci faceva una passeggiata. Per evitare questi ulteriori sconfinamenti negli anni successivi il muro era stato rialzato, e per andare dall'altra parte bisognava scavalcarlo arrampicandosi faticosamente o facendosi fare da scaletta con le mani da un compagno. Molti anni dopo, mentre andavo all'edicola infondo alla via, mi ero fermato davanti a questo stesso muro, ulteriormente rialzato e reso invalicabile, e avevo accostato l'orecchio alle sue fredde pareti. Mi era sembrato di sentire ancora, dall'altra parte, come delle grida di giochi di bambini, molto flebili, forse attutite dai mattoni, forse dalla lontananza. Ma non saprei, non sono sicuro, erano come dei bisbigli, non sono sicuro, potrei essermi sbagliato, non sono sicuro.

Ai margini di un campo di grano macchiato di papaveri, un uomo nudo, completamente nudo, nudo come un bambino, dipinge sulla sua tela un orizzonte pieno di colori.  

 

 

 

 

 
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