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Servo di due padroni

Post n°354 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da max_6_66
Foto di max_6_66

Realtà e finzione che si intrecciano, sempre, nella nostra vita, magari in modo inconsapevole, spesso dando luogo all'inganno, al tradimento. Ecco perché mi è sempre piaciuto il teatro, il luogo dove invece una finzione esplicita diventa realtà, dove le maschere diventano vive, senza falsità alcuna. Il grande dubbio dell'attore è solo quello di decidere fino a che punto immedesimarsi, fino a che punto essere se stesso e non il personaggio, anche prima di passare quella porticina che dal camerino porta al palco. Nel mio prossimo impegno interpreto Arlecchino.

Ho iniziato camminando per strada, sentendolo vicino a me, parlavo e mi suggeriva la risposta, la battuta, mi costringeva a fare un saltello, ogni tanto, tra un passo regolare e l'altro. Passando i giorni è diventato sempre più reale, uscendo dalla mia testa, dai miei pensieri, fino a trasformarsi in una presenza che solo io vedo, ma che esiste, molto più che se fosse di carne.

E quindi, dopo un mese, il mio contatto con la realtà è già diminuito in modo decisivo. Siamo diventati entrambi di una consistenza fisica paritaria, ma non perché lui è diventato di carne, quanto per il fatto che ci siamo incontrati a metà strada. Mi vedo, mi osservo come se fossi spettatore delle mie azioni, che si svolgono sul palcoscenico della vita. Mi vedo scendere dal marciapiede, distratto, ridendo dei lazzi del compare, senza rendermi conto che sta sopraggiungendo un'auto. Un colpo sordo.

Appena riaperti gli occhi dalle risate mi sono trovato in cammino sul sentiero che tutti ci immaginiamo, anche se a guardarlo bene assomiglia più che altro ad una sua versione parodistica, con le nuvolette e tutto il resto. Anche il punto dove termina il sentiero corrisponde assolutamente a questo stile: un cancello chiuso, superato il quale il cammino si biforca in due distinte direzioni. Una verso l'alto e una verso il basso. Arlecchino, che fino a quel momento mi affiancava, mi passa davanti con un saltello, con i modi di chi conosce la strada. Effettivamente, si dirige con sicurezza verso la colonna al lato destro della cancellata già con l'indice puntato, come per gioco, verso un campanello che da dove siamo noi non si vede ancora, palesando quindi la conoscenza di quel particolare. Il tempo di raggiungerlo che il Custode del cancello è già li.

Mi tengo un po' in disparte perché appare subito evidente che inizia proprio in quel punto l'Esame. Arlecchino parla in bergamasco e capisco poco di quello che dice, ma quel poco mi permette di decifrare che si tratta di una lista di fatti, eventi, cose. L'atmosfera è, oltre che surreale, rilassata. Anzi, direi divertente, perché l'Esaminatore ride. Non ride in modo sfacciato, direi, meglio, che sorride, anche se senza compiacimento. A ogni fatto di Arlecchino, un breve attimo di immobilità della sua bocca, prima di allargarsi per i successivi secondi, in questa specie di assoluzione sorridente. Una assoluzione automatica, come la cassiera che passa i codici a barre dei prodotti sul lettore ottico. Assoluzione. Perché ho usato questa parola?

Arlecchino è un grande peccatore. Ruba il dolce della comare messo sul davanzale a raffreddare, il pranzo all'oste, l'amore alla servetta. Ma tutto questo lo fa perché ha sempre fame, ha continuamente fame, ha una passione smisurata per l'aver fame, una fame smisurata per la passione. Se fossero in quel momento presenti la comare, l'oste e la servetta, con tutto l'astio possibile suggerirebbero di indirizzarlo verso la strada in discesa e parecchio verso il basso. Non ci sarebbero dubbi.

Nei gironi dell'inferno Dantesco esiste un ordine. Sono dei cerchi discendenti, quindi c'è differenza tra stare più o meno infondo. Nel primo cerchio, addirittura, non ci sono nemmeno dei peccatori veri e propri e dal secondo in poi si inizia con i peccati che hanno a che fare con la passione, fino ad arrivare alla fraudolenza e al tradimento, considerati addirittura più gravi della violenza fisica e dell'omicidio.

Dopo Arlecchino tocca a me. Mi avvicino e dalla mia bocca escono cose senza che me ne renda conto. Come quelle bambole che hanno un filo sulla schiena, che lo tiri e parlano. Posso fare ben poco, cerco di metterci un po' di lazzo anch'io, quel poco imparato dal mio compagno di queste felici settimane, ma l'effetto non è lo stesso. La cosa viene fuori un po' forzata, la storiella divertente sulla bocca di chi non è bravo a raccontare le barzellette.

Come se il filo della bambola fosse arrivato al termine, la mia esposizione finisce. Il Custode del cancello si accarezza il mento con l'indice ed il pollice e ci squadra dall'alto in basso alternativamente. Un ulteriore sorriso quando il suo sguardo indugia su Arlecchino, per poi divenire più serio quando inquadra me. Ma proprio mentre la mia preoccupazione stava diventando un po' angosciante, succede una cosa strana. Quello che in teatro è il "Deus Ex Machina".

Mentre il mio compare viene osservato, stimolando il solito sorriso, volge il suo sguardo verso il mio volto, telecomandato così il collo dell'Esaminatore, che quando incrocia a quel punto i miei occhi ha ancora lo stesso sguardo indulgente. E' fatta, il giudizio è diventato lo stesso anche per me, non saremo separati. Si, ma a questo punto, appena verrà aperto il cancello, dove andremo? Sicuramente non verso il basso, ma anche verso l'alto non sarebbe giusto nei confronti di chi le torte le ha sempre lasciate in pace raffreddare, idem le servette. Il fatto che si prospetti una soluzione particolare me lo suggerisce anche il fatto che, comunque, il cancello rimane chiuso.

Reparto maternità, tra tutte le culle, due più vicine tra loro delle altre. I due occupanti piangono a dirotto e una infermiera si avvicina. Appena si china verso di loro, quello dei due con la tutina a rombi colorati smette improvvisamente di piangere, e fa l'occhietto alla ragazza in camice bianco.  

 

 

 
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