Creato da: max_6_66 il 30/06/2009
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Prima bisogna vedere quello che si deve fare

Post n°352 pubblicato il 03 Febbraio 2014 da max_6_66

 
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Un sorriso, uscendo di casa.

Post n°351 pubblicato il 02 Febbraio 2014 da max_6_66
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Così, di prima mattina, quando cammini verso il bagno e ancora cerchi di ricordarti come ti chiami, mai immagineresti un trauma simile nel guardarti allo specchio. I primi cinque secondi non ti rendi conto e niente ti può stupire, ma appena cominci a concretizzare che quello che vedi è la realtà e non sei dentro il mondo dei sogni, l'è una bella botta. Nonostante la mostruosità della cosa non ti metti ad urlare, non svieni dallo spavento, non scappi nudo fuori di casa. Rimani a bocca aperta, paralizzato, con il cervello ingrippato in cerca di una spiegazione logica che non è possibile trovare.

Non volevo nascondermi, non volevo scappare, solo curiosità.

Dopo lo spavento, la risata. Essere in bagno, lavarsi la faccia, rialzare il capo e trovarsi davanti una specie di cartone animato è una cosa che fa ridere. Anche se la cosa che hai davanti è uno specchio. Un cartone animato bellino, simpatico, che ti assomiglia in fondo, come se fosse stato disegnato da un tratto che seguiva i tuoi lineamenti, prendendone la parte migliore. Come se qualcuno avesse disegnato il te stesso che desideri essere.

Non volevo nascondermi, non volevo scappare, solo curiosità.

Anche il fine settimana scorso, rientrato in casa a notte fonda, ripensavo a tutte le cose fuori luogo dette al posto di quelle che avrei dovuto e voluto dire, le battute che non mi erano uscite bene, le cose che dicevo e che nessuno ascoltava. Ho letto un sacco di libri su come bisogna diventare, su come bisogna sembrare, su come si fa a piacere. Anche il fine settimana scorso ci avevo ripensato prima di uscire, avevo costruito il mio piano, avevo ripassato la lezione. Niente da fare. E allora mi ero collegato in rete, mi ero creato un profilo, mi ero creato un volto e un corpo di fumetto, con un programmino fatto apposta. Quella, pensavo in quel momento, era l'unica cosa giusta fatta in tutta la serata, perché il profilo e il personaggino erano lo specchio esatto di quello che c'era scritto in tutti i miei libri.

Non volevo nascondermi non volevo scappare, solo curiosità.

Dopo lo spavento la risata, e continuavo a ridere, ridere a crepapelle di quello che la notte prima mi era sembrato perfetto, e che adesso cominciavo a vedere nello specchio del mio bagno per quello che era: un bamboccio. Una risata è quella che ti salva sempre. I muscoli delle mascelle si muovevano, oscillavano, la pelle vera riprendeva la sua elasticità, quella sotto la maschera di gesso che formava la faccia a cartone animato. Le risate aumentavano e il gesso iniziava a sgretolarsi, i pezzi cadevano nel lavandino, fino al crollo finale di quanto ancora rimasto attaccato al mio volto. Una nuova lavata di faccia, acqua gelida, un ultimo sorriso per gli ultimi pezzetti ancora rimasti appiccicati, e nello specchio c'ero di nuovo io.

Poi mi sono vestito, e sono uscito a far vedere la mia brutta faccia sorridente in giro.

L'arruffio, se c'è, dunque è voluto, ma non da me, bensì dalla favola stessa, dagli stessi personaggi: E si scopre subito, difatti. Spesso è concertato apposta e messo sotto gli occhi nell'atto di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una rappresentazione, il giuoco delle parti, quello che vorremmo o dovremmo essere, quello che agli altri pare che siamo, mentre quel che siamo non lo sappiamo neanche noi stessi. La goffa, incerta metafora di noi, la costruzione, spesso arzigogolata, che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi. Dunque un macchinismo, in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il calcio che manda all'aria tutta la baracca. (L. Pirandello)

 

 

 
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"Sometimes i feel like a motherless child"

Post n°349 pubblicato il 06 Gennaio 2014 da max_6_66

 
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Dal mare (racconto dell'Epifania)

Post n°348 pubblicato il 05 Gennaio 2014 da max_6_66
Foto di max_6_66

A metà della salita mi era successa una cosa strana. Non sentivo più la fatica. La pedalata, per quanto dura, scorreva regolare e senza bruciarmi i muscoli. Avevo trovato il mio ritmo e sembrava essere arrivato il momento di tentare un allungo per rompere le gambe degli altri due, ma nello stesso momento avevo sentito che non era la cosa giusta, che dovevamo restare uniti. Quella che era nata come una sfida tra noi stava diventando un traguardo da raggiungere insieme, come per un disegno preordinato e di cui solo adesso mi si stavano delineando davanti i primi contorni, il primo abbozzo.

Tre negozi nella stessa strada: l'oreficeria, il negozio di articoli religiosi, l'erboristeria. Tre amici con la stessa passione per la bicicletta. E per le sfide. Una traversata intera dal centro città fino ad arrivare al mare, passando per i valichi. Giornate invernali fredde e piovose, chilometri e chilometri da percorrere.

E così mi ero messo davanti agli altri due, ma solo per rompergli l'aria, per tirarmeli su, visto che oramai all'ultimo valico mancavano meno chilometri delle dita di una mano. Sono tantissime le dita di una mano con queste pendenze, con il vento freddo che arrivando dalla cima lungo la gola ti spinge indietro, con le goccioline rade, a metà tra la pioggia e la nebbia grossa, che sembrano spilli in faccia. Per questo motivo, io che ne avevo di più in questo momento, dovevo stare avanti. La strada era ancora lunga e sarebbe toccato prima o poi a uno di loro fare lo stesso.

Siamo persone comuni, che fanno una vita comune, con alti e bassi. Ma questo non vuol dire che non si possano compiere imprese addirittura superiori a quello che siamo in grado di comprendere. E la cosa più divertente è che quando succede, non smettiamo di essere persone normali, è solo che ci siamo prestati per un attimo a qualcos'altro. La manovalanza della storia, l'indispensabile mano operaia della storia senza la quale niente sarebbe stato fatto e costruito, è sempre composta da persone normali. Da persone che pedalano in salita facendo una fatica cane, cercando di ammorbidire i muscoli delle gambe con qualche imprecazione.

la salita era finita, ma c'era appena il tempo per staccare le mani dal manubrio e infilarsi il foglio di giornale sotto la maglia. Nella nebbia di nuvole del valico iniziava il pericolo della discesa. 

La paura. Così come in salita le mie gambe erano salde, sull'asfalto viscido della discesa tremavano. Toccava adesso ad un altro mettersi davanti e disegnare la traiettoria giusta per tutti. 

Ci si mette alla giusta distanza da quello che ti precede e si fissa attentamente la sua ruota posteriore, come in trance, seguendone scrupolosamente il piccolo solco lasciato sull'umidità della strada e osservando il minimo cambio di pendenza che preannuncia una curva. Quando poi per un attimo la discesa diventa meno impegnativa e veloce hai il tempo di alzare lo sguardo, verso l'orizzonte, il fondo della valle. Vedi che laggiù c'è più luce, forse il sole.

Oramai è quasi pianura. Ti dai qualche cambio portandoti davanti al gruppetto e mentre sorpassi il compagno c'è il tempo per scambiarsi un sorriso di soddisfazione. Avevamo continuato così ancora per qualche chilometro, con quella strana sensazione di non sentire la fatica perché non ci pensi. L'aria era cambiata, il salmastro solleticava le narici, si intravedeva in lontananza il volo da aquiloni degli  uccelli marini.

Alla fine della strada gli scogli. Un barcone incastrato dalle onde in quelle enormi pietre scure. Uomini e donne con i vestiti stracciati e la pelle scura, in piedi, immobili, davanti ad un uomo e una donna che avevano adagiato una creatura appena nata su un pagliericcio di alghe seccate dal sole.  

Dopo uno sguardo complice tra noi, con in volto il sorriso di chi capisce di essere arrivato, era arrivato il momento di scendere dalle nostre biciclette per andare verso il  bambino.

 
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