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Post n°323 pubblicato il 06 Agosto 2012 da max_6_66
Foto di max_6_66

La torre di babele

Una sagra a dicembre. Beh, oramai sono proliferate superando ogni limite. Però non pensavo che con questo freddo qualcuno si sarebbe dato da fare intorno ai fornelli e alle griglie per riunire della gente sotto qualche tendone piazzato in un campo sportivo di periferia. Probabilmente uno di quei manifesti attaccati ai semafori e agli incroci la stavano già reclamizzando senza che ci avessi fatto caso. Magari per colpa della pioggia, che nel frattempo ha scolorito le scritte fatte con un pennarello non indelebile alle intemperie.

Ora che ci penso, non è sempre stato così. Di sagre ce ne sono sempre state moltis-sime, in tutti i periodi dell'anno. Sono le feste politiche e di partito che sono diventate piuttosto rare. Quelle piccole, di quartiere, di paese, dove la politica aveva facce che non vedevi in televisione. Forse, alla fine, la differenza con le sagre paesane era semplicemente rappresentata della presenza di bandiere colorate e di qualche dibattito. Mangiare, passare del tempo insieme, parlare, ridere e scherzare, bevendo il vino che costa poco ma si lascia bere, se la politica fosse una cosa del genere non sarebbe poi così male. Quando è stata inventata questa parola, è stato fatto per descrivere qualcosa che poteva essere simile a questo ? Gli abitanti di un paese in cima a una collina che si trovano tutti insieme, alcuni per organizzare i turni davanti alla griglia, altri per andare con la famiglia a mangiare un po' di costolette di maiale bruciacchiate. Sicuramente, chi l'ha pronunciata per la prima volta non pensava a quello che si vede durante i telegiornali e che viene chiamato con lo stesso nome, perché a quei tempi la televisione non esisteva.

Mentre osservo i faretti che illuminano l'entrata di questa sagra invernale, passo oltre e decido di parcheggiare circa cinquecento metri davanti a me. Scelgo di proposito il posto dove parcheggia uno che doveva fermarsi lì per gli affari suoi, ma che vede quelle lucine lontane e si affaccia, giusto per curiosità. Piove un'acqua fine, che senti di non aver bisogno dell'ombrello, ma in realtà ti bagna come un temporale, anzi, più profondamente. Le gocce grandi rimbalzano sulla pelle. Questi spilli d'acqua riescono come a penetrare nei pori, portando il freddo e l'umidità fino al contatto con le ossa. Guadagno l'entrata con passo svelto e rimango stupito dal fatto che effettivamente c'è gente. Stanno addirittura facendo una gara di tiro alla fune.

Mi trovo immediatamente davanti a uno dei due gruppi di persone aggrappato a quella corda. La gara deve essere iniziata da un po' e sicuramente sono tutti caduti molte volte, per rialzarsi immediatamente e ricominciare a tirare, giusto il tempo di sputare il fango infilato in bocca. Quando la corda ti brucia le mani o lo strappo ti prende di sorpresa e cadi, ti scappa sempre un grido di dolore. Cadi a faccia a terra mentre gridi e ti si riempie la bocca di fango. Altra cosa curiosa e che sono tutti vestiti di bianco. Si, certo, arrivati a questo punto è difficile capire che questo fosse il colore dei loro vestiti prima di iniziare la gara, ma da qualche risvolto, da qualche colletto, ancora si riesce a distinguerlo. Con un po' di attenzione si riesce a notare, con una certa sicurezza, il fatto che tutti abbiano fatto questa scelta inopportuna. Probabilmente sono i colori della squadra o qualcosa del genere. La gara è nel vivo.

Quelli appena rialzati, dopo aver sputato, riprendono a tirare con maggior vigore e nello stesso tempo a inveire con rabbia maggiore contro gli avversari, lontanissimi. La corda infatti è talmente lunga che si intravede a malapena il gruppo che tira dall'altro capo della corda.

Gli spettatori invece sono tutti seduti su una tribunetta coperta, pochi uomini e donne, tutti ben vestiti, chiacchierano a bassa voce, quasi bisbigliando, poco interessati a ciò che avviene davanti a loro se non nel momento che qualcuno perde la presa e cade, o che una delle due fazioni sembra per un attimo prevalere, prima che un attimo dopo ritorni la parità. Sono tutti vestiti di scuro, anzi, proprio di nero, lucido perfetto, con una apparente raffinatezza che contrasta in modo fastidioso con il modo di mangiare che hanno. Perché quelli in tribuna mangiano. Si godono lo spettacolo mangiando in modo molto rumoroso delle cosce di pollo che prendono da grandi vassoi appoggiati per terra. Addirittura contendendosi i pezzi più grandi emettendo un sottile ringhio, che si trasforma immediatamente uno strano sorriso di circostanza appena terminata la contesa.

Mi alzo il bavero del cappotto, e mi incammino verso il capo opposto della fune, spinto dalla curiosità di vedere l'altra squadra, cercando di scansare pozzanghere sicuramente più profonde dell'altezza delle mie scarpe.

Dopo circa trecento metri inizio ad intravedere nitidamente la forma dei loro corpi. Niente di diverso dagli altri, vene gonfie sul collo per lo sforzo, tirano, imprecano contro gli avversari, cadono nel fango, sputano, si rialzano. E sotto il fango che li ricopre, si intravedono gli stessi vestiti Bianchi. Come dall'altro capo ci sono anche donne, vecchi, bambini piccoli. Mi soffermo a guardarne uno, il più piccolo di tutti, stupito dal fatto che sia stato coinvolto in una cosa così truce, sotto la pioggia, d'inverno. Ha uno straccio legato intorno al capo, una bandana, assolutamente simile a quella di un bambino visto dalla parte opposta della fune.

Anche la signora con grembiule da massaia, quella che urla parole irripetibili a persone di cui non vedrebbe il volto con un cannocchiale, anche lei, si, dall'altra parte ce n'era una con lo stesso grembiule. Anche quello con un braccio solo, che dalle vene sul collo si vede che tira per due, anche dall'altra parte, si, probabilmente per pareggiare, un fatto di sportività, arretro, in principio a piccoli passi, fino a che giunto vicino all'uscita mi volto e corro, un improvviso dolore, una bruciatura alle mani, le metto in tasca e continuo a correre, scomposto.

Sono arrivato all'auto, esito, le chiavi sono nella parte interna del giaccone. Piove, sono costretto a farlo. Sfilo le mani dalle tasche dei pantaloni sporche di fango e sanguinanti, le osservo fino a che non riesco a usarne una per cercare le chiavi.
In realtà non sono riuscito ad entrare in auto e scappare, ho sentito il bisogno di fare qualche passo a piedi, per calmarmi, per pensare. Osservo la gente che mi supera con passo svelto, o quella che mi viene incontro guardando verso il basso. Cerco le loro mani, per curiosità, sperando di trovare condivisione, o forse compassione, ma le tengono tutti in modo che non sia visibile il palmo. Mi ritrovo davanti alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, mentre da una parete di televisioni, tutte sintonizzate sullo stesso canale, va in onda tutta una serie di spot pubblicitari di guanti griffati, e tutti con le iniziali dei vari stilisti ben visibili.

 

 
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