Creato da fading_of_the_day il 17/11/2010

Fading of the day

....as night takes over

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Post n°163 pubblicato il 10 Giugno 2014 da fading_of_the_day
 

L'appartamento che avevamo preso in affitto io e mia madre era assolutamente divino. Si trovava al quinto piano di una palazzina signorile nel pieno cuore di Trastevere. Certo, la notte, specie nel fine settimana, dormire era complicato, ma si godeva di tutto il cuore pulsante della città, dei suoi profumi, del costante vociare della gente, del brusio dei locali che facevano da sottofondo a quelle viuzze strette, ciascuna delle quali nascondeva una, mille storie.

Avevamo concordato con la padrona di casa tre mesi di permanenza: giusto il tempo di avviare la nuova proprietà e trovare un gestore onesto a cui affidare la conduzione del locale. Poi avremmo fatto ritorno ad Edimburgo. Il Kings Wark era la mia casa, lei lo sapeva. Quanto al locale a New York, le avevo detto che avrebbe potuto fare come voleva: sarebbe stato totalmente nelle sue mani, visto e considerato che una settimana si ed una no si trovava per lavoro nella grande mela.

Quella sera il caldo sembrava aver dato una tregua ed un provvidenziale venticello rendeva piacevole godere del panorama. Lo scorcio che adoravo di più era quello che si poteva ammirare dal lato nord della casa. La piccola finestra dava su un chiostro privato, molto ben tenuto con piante fitte ed una fontana di marmo nel centro, sulla quale spiccava la statua in pietra di due cigni. Da quella postazione si godeva di una vista insolita e meno mondana della Capitale. Si potevano scorgere i tetti degli edifici più popolari, che affondavano nel buio della notte con il loro bagaglio di stanchezza per il giorno appena trascorso. Era quella la parte di quartiere dove risiedeva la gente comune, lontana dal traffico del Lungotevere, estranea allo scalpitare dello "struscio"  delle vie più battute. Quella era, forse, la vera anima della città.

Appoggiata con i gomiti al davanzale, mi girai a guardare il piccolo scrittoio in legno scuro dove mi sedevo spesso a riordinare le fatture ed a lavorare al computer. Rappresentava il pezzo di mobilio che adoravo di più in quella casa. Era in mogano ed aveva delle rifiniture sui lati, degli intarsi fatti con una precisione ed eleganza fuori dal tempo, eredità di mani sapienti che, forse, non avevano avuto modo di far sopravvivere la loro arte. Mi appoggiai con le mani sul bordo del tavolo e chiusi gli occhi. Attraverso le dita mi sembrava quasi di sentire gli anni e la storia scorrere. Provai ad immaginare quante altre mani avessero toccato quell'oggetto, quante lettere fossero state scritte, quanti sorrisi e quante lacrime regalate a quel testimone silenzioso ed impassibile.

Sebbene quella serata fosse più fresca delle precedenti, avvertii una certa sete. In frigo trovai una bottiglia di limonata mezza vuota. Assaporai il primo sorso e, subito, ritornai con la mente a quando avevo sette-otto anni e mia nonna mi portava al parco. Adoravo la limonata e lei me la comprava sempre, estate o inverno che fosse. La bevevo e poi mi lanciavo dallo scivolo che a me pareva enorme e ripidissimo. Salivo le scalette, mi sedevo, tiravo su le braccia e mi lasciavo cadere. Sentivo lo stomaco salire su, fino al cuore. Era una sensazione che mi donava paura ed eccitazione allo stesso tempo.

Guardai la mia mano sinistra e vidi la fede, nonostante l'avessi sempre portata, era quasi perfetta, ad eccezione di qualche piccola scalfitura. Con indice e pollice della mano destra la sfilai delicatamente via. Sul dito, l'inconfondibile segno bianco lasciato da quella presenza costante. Mi spostai vicino alla luce che proveniva dalla lampada a muro e lessi la data: ventuno ottobre duemiladieci. Era il giorno che ci eravamo conosciuti ed io e Jeremy avevamo voluto riportare quella. La guardai più da vicino e la toccai con le dita. Piansi in silenzio pensando a ciò che avrei potuto avere e non avevo avuto.

La mente vagò al giorno prima. A volte il destino non si sa bene se sia benevolo o crudele. Fatto sta che ci eravamo rincontrati: il caso aveva voluto che si fosse fermato al mio locale a Campo de' Fiori. A distanza di cinque anni avevo sentito lo stomaco andare giù e dentro mi si era riacceso quel calore come la prima volta. Avevamo parlato per un bel pezzo, gli avevo detto che non c'era stato nessun'altro dopo di lui. Gli avevo fatto vedere che la fede che ci eravamo scambiato quel giorno: l'avevo sempre portata. Era l'unica cosa che mi faceva sentire davvero vicina a lui, vicina a mio marito.

Gli avevo confessato che tante volte avrei voluto parlargli, spiegarmi e chiedere il suo perdono. Avrei fatto qualsiasi cosa per avere solo un'altra possibilità. Ricominciare daccapo, dovunque lui volesse. Ora, il destino, il fato, aveva voluto che ci rincontrassimo: sembrava il lieto fine di una brutta storia. Come nei film. Gli avevo chiesto di riprovare, ma, dalle sue parole avevo capito che era ancora ferito, che non era ancora stato in grado di perdonarmi. Mi aveva assicurato che non aveva avuto nessun'altra dopo di me. Chissà se era vero, forse c'era un'altra donna e, per delicatezza, aveva preferito mentirmi.

Forse era giusto così, me lo meritavo: avevo fatto il più grande errore della mia vita, avevo perso l'unica persona che davvero amavo. E ora cosa pretendevo?

Mi asciugai le lacrime e mi avvicinai di nuovo allo scrittoio. Avevo lasciato quatto lettere: una  alla padrona di casa, una a mia madre, una alla loggia ed una a mio marito. In quest'ultima misi la fede e poi la sigillai.

Il vento aveva aumentato un poco di intensità. Mi rivolsi verso la finestra e sentii il volto invaso da quella folata fresca. Sembrava una notte di fine estate, ma eravamo ancora nel pieno della bella stagione. Appoggiai le mani sul marmo del parapetto ed una scossa fredda mi salì su per le braccia. Poi, mi rivenne in mente quando andavo al parco con mia nonna e salivo sullo scivolo.

Così, mi sedetti sul davanzale e alzai prima un braccio e poi l'altro.
Chiusi gli occhi e mi lasciai scivolare giù.

Lo stomaco arrivò giusto all'altezza del cuore.

 
 
 
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