Fading of the day

Barcode

Il mondo è una sconfinata raccolta di etichette. Ognuno è e rappresenta un marchio.

Un'etichetta ce l'ha il consulente bancario, dietro la sua scrivania sempre in ordine, con il colletto della camicia inamidato ed il tracheotomizzante nodo della cravatta. Ce l'ha il muratore, che siede in ginocchio per terra con mezzo culo di fuori e la calce sulla faccia (tutti i muratori prima o poi si sporcano di calce in viso). L'etichetta ce l'ha il salumiere con il volto pingue, le guance rosse e la bocca sempre in movimento a masticare qualcosa.

All'indomani dell'incontro con Emma, anche Luca pensava alla propria di etichetta.
O meglio, pensava a quella che si aspettava gli altri leggessero sul suo petto.
Come il cartellino di un impiegato del supermarket.

Dalla sera prima lo tormentava una domanda.
No, non era quella che avrebbe voluto rivolgere ad Emma. Troppo scontata e complessa allo stesso tempo. Ciò che si avvitava nella sua testa come il mulinello di un cavatappi era qualcosa a cui non pensava mai perchè dava per scontato.

Qual'era la sua di etichetta?

Era quella schiva, sfacciatamente sicura di sé, incisa di prosaico cinismo che aveva sempre portato in bella mostra in tre decadi di onorata esistenza o quella balbettante, fanciullescamente incerta, mimetizzata con goffagine e disagio la sera prima?

La sua etichetta era forse cambiata?
E se si, come era possibile una svolta così repentina dopo una conversazione di soli dieci minuti? Luca era confuso e, per turarsi le orecchie dal baccano che faceva il suo cervello, iniziò a pensare ad un'altra etichetta. Quella di Emma.

Chi era e cosa rappresentava?

A guardarla bene, quantomeno esteriormente, pareva abbigliata seguendo i criteri più avanzati del credo e della prassi del professionismo femminile. Aveva un look impietosamente funzionale dalla punta dei capelli alle dita dei piedi. L'irriverenza della frangia, il teschio ribelle che campeggiava sul davanti della maglietta, i pantaloni di pelle nera, il tacco 12 degli stivaletti. La sua etichetta "parlava" chiaro. Intraprendente, forte, spavalda ed ammiccante nell'ostentare la propria femminilità.

Ma il punto era uno. Quanto l'etichetta esteriore di Emma combaciava con quella interiore? Era veramente lei quella che aveva visto la sera prima o il suo marchio era stato, in qualche modo, adulterato da imprescindibili esigenze dello showbiz? Questo non poteva saperlo lui e, dopotutto, forse, non lo sapeva con certezza neanche lei.

Ma di una cosa era certo. Leggere quell'etichetta, in un modo o nell'altro, lo aveva messo in difficoltà. Aveva aggrottato la fronte, inarcato il sopracciglio come un'artista colto dal ripensamento e, infine, si era arreso alla più banale constatazione che potesse fare, meravigliandosi di aver sprecato così tanto tempo per giungere ad una conclusione ovvia, che la maggiorparte degli uomini avrebbe letto sulla porosa punta della propria lingua fin dal primo istante.

Emma gli piaceva. E non poco.

Sapere anche il "perchè" era chiedersi troppo, soprattutto alle prime luci del mattino, quando l'emisfero sinistro litiga le coperte della notte con il destro.

Arrendersi all'evidenza era la cosa migliore e gli evitava la fatica derivante dall'atavica ossessione di analizzare tutto e tutti per enucleare la propria piccola visione del mondo.

Emma gli piaceva. Incondizionatamente.

Qualsiasi etichetta portasse addosso.

Quando si salutarono la sera prima avrebbe voluto poter dire qualcosa. Qualsiasi cosa come "Da piccolo non ho mai fatto a pugni", o "La settimana scorsa ho mangiato sushi". Qualsiasi miserabile, infima cazzata gli fosse uscita da quell'arida bocca sarebbe stato meglio di un imbarazzante silenzio.

Ma non ne era stato capace.