Creato da fading_of_the_day il 17/11/2010

Fading of the day

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Post n°219 pubblicato il 22 Giugno 2015 da fading_of_the_day
 

 

 

Il film della loro vita ne aveva viste molte di istantanee. Alcune eleganti, in bianco e nero, come scene di un film di Truffaut, altre colorate, dinamiche come un quadro di Van Gogh. In tutte si poteva scorgere una certa tensione verso il futuro, quella bramosia giovanile che portava a bere i giorni e le notti tutte d'un fiato, come un long drink. E poi ad ordinarne un altro. Ed un altro ancora.

I calici si erano intrecciati tante altre volte.
Poi, un giorno erano caduti in terra, rompendosi in mille pezzi.

La diapositiva che seguì era in bianco e nero: non era un quadro di van Gogh.

Ma nemmeno una scena di Truffaut.


Una stanza, sovraesposta ed arredata in stile minimal. Due piccoli divanetti bianchi in ecopelle, un tavolinetto basso di vetro con alcune riviste. Sullo sfondo, due ampie finestre a tutto vetro si affacciano su un parco.

Sui due piccoli divanetti un ragazzo ed una ragazza. Lui jeans scuri, camicia e scarpe casual, fissa un giornale senza troppa attenzione. Guarda ma non legge. I caratteri e le immagini gli scorrono davanti agli occhi privi di significato. Lei indossa un vestito leggero, estivo: ha le gambe accavallate e le braccia conserte. Osserva un punto indefinito al di sotto del tavolino di vetro. Forse una briciola di pane o un batuffolo di polvere. Porta un cappello, un basco, e sembra avere i capelli raccolti al suo interno.

Entra un terzo uomo, corpulento. Porta una divisa chiara, un po' oversize, che gli arriva abbondantemente sotto il ginocchio. Lascia alcuni fogli sul tavolinetto. I due ragazzi non hanno neanche il tempo di rivolgergli uno sguardo che lui se ne va.

Il ragazzo accantona il giornale e prende i fogli dal tavolino: se li avvicina lentamente come fossero carte di una mano di poker. Con gesti lenti li sfoglia fino ad arrivare al punto che gli interessa. Legge e rimane qualche secondo immobile. Poi li allontana e sta per posarli di nuovo sul tavolinetto. Dirige lo sguardo verso la ragazza che percepisce la sua attenzione visiva e si desta dal suo stato di trance, come se quegli occhi che la fissano fossero uno schiocco di dita. Con un gesto rapido glieli sottrae ed il ragazzo rimane con le mai protese, come se ancora li stesse reggendo. La ragazza lo guarda con occhi di vetro, stanchi, inespressivi, vuoti, come un robot a cui hanno tolto le batterie. Riunisce i fogli e, con gesti lenti e maccanici, se li adagia in grembo. Lentamente ne scorre il contenuto.

Poi si porta una mano alla bocca.
Li lascia cadere e scoppia a piangere.


Nicolas si abbandonò sul divano come un peso morto, un sacco da pugile orfano di chi, fino a poco prima, lo aveva picchiato senza pietà, solo per il gusto di filtrarsi un po' l'anima.

Trovò che il silenzio della sua casa gli trasmetteva comforto e ripensò, sorridendo, a tutte le volte che, viceversa,  aveva espresso insofferenza nei confronti di quell'immobilità ambientale. Chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di sentire la voce di Sophie, le sue risate, il suo respiro. Sophie era lì anche se non c'era. Sophie era lui e lui era Sophie.

Infilò una mano nella giacca e dalla tasca interna e tirò fuori una manciata di fogli piegati. Li avvicinò al viso e percepì nitidamente il profumo di Sophie. Li sistemò con cura uno sull'altro in ordine: ognuno di essi recava in testa il logo in rilievo della "Clinique Du Nord" che richiamava lo scudo crociato elvetico.

Rilesse attentamente il contenuto parola per parola sperando che qualcosa o qualcuno avesse cambiato ciò che vi era riportato. Furono incalcolabili le sensazioni che provò in quei pochi attimi. Su tutte prevaleva la negazione, il non voler accettare quello che c'era scritto, il voler confutare strenuamente ciò che una figura autorevole aveva refertato di proprio pugno.

Sophie era affetta da un male incurabile e, nel giro di un paio di mesi, se ne sarebbe andata.

La proiezione di sè stesso nel futuro, oltre il muro di quei due fatidici mesi lo svuotò, lo rese inerte come un pupazzo di pezza perduto da un bambino in una strada di periferia. Cosa avrebbe fatto senza Sophie?

Ripercorse a ritroso quei pochi mesi passati insieme e la lancetta dell'orologio si fermò al giorno del loro primo appuntamento. Gli occhi di Sophie piantati nei suoi e tutto quel ragionamento sull'amore che ne era scaturito nella sua testa. L'amore era un mistero e a nulla sarebbe valso ogni tentativo di inquadrarlo in una logica. Era vana ogni modellazione razionale. L'amore rimaneva indefinito ed indefinibile.

Ma se l'amore era un mistero, lo era anche la morte.

Amore e morte, dunque. Alfa e omega. Uno e zero.

Un serpente che si ciba della sua stessa coda per non morire, ma che prima o poi dovrà morire. Il paradosso dell'uroboro, l'assurdo della necessità di vivere che porta al proprio annientamento. La contraddizione di amare qualcosa che svanirà: amore e morte come beffarda dualità di un tutt'uno.

Nicolas si asciugò una lacrima, maledicendosi perchè aveva promesso a sè stesso che sarebbe stato forte. Lo doveva a sè stesso ed a Sophie. Prima di uscire andò in cucina ed aprì il pensile dei medicinali. Li passò in rassegna uno ad uno finchè non capì cosa doveva fare, finchè la scelta che doveva fare non si palesò davanti ai suoi occhi in tutta la sua cruda verità. Scelse una boccetta ancora sigillata e riempì un bicchiere d'acqua. Tornò in salone e li sistemò, con cura, sul comodino vicino al divano, accanto ad una foto di Sophie.

Si infilò la giacca e fece un sorriso tirato quando si affacciò nella sua mente l'idea che, in fondo, l'amore non era così differente dalla morte: vivevano entrambi una condizione di precarietà, erano  due stati, forse due errori. Erano due entità molto più vicine di quanto si potesse pensare. Erano fratello e sorella. Se non la stessa cosa.

L'amore era morte.
La morte era amore.

 
 
 
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